editorialifamiglia

E le donne che non riescono a generare vita, che cosa possono fare?

In questi giorni in cui ho letto del dibattito circa la liberalizzazione della Ru486, ho “incontrato” anche il link per Il Centuplo ed ho letto il pezzo su Tania Cagnotto e sulla sua seconda gravidanza con conseguente rinuncia alle olimpiadi 2021. Quelle righe, che in maniera così fresca lodano la vita, mi hanno fatto pensare con prepotenza a tutte quelle donne che la vita non riescono a darla perché infertili.

Io sono medico, donna e madre. Come anestesista che opera in sala operatoria ed in ambulatorio di agopuntura ho incontrato tante donne lungo il cammino della procreazione assistita. Con gli occhi della mente, ho rivisto tutte le donne che per mesi vivono con l’addome pieno di lividi per le punture ormonali a cui devono sottoporsi. Ho rivisto tutte le donne che attendono il loro turno per ricevere la sedazione e subire il prelievo degli ovociti. Ho rivisto le donne tremare di fronte al prelievo di sangue che consegnava loro una sentenza: gravidanza o fallimento. Ho rivisto tutte le donne pregare e chiedermi oltre a chiedersi “perché a me, non è concesso?” Le ho viste, anche e persino, dolorosamente ricoverate nello stesso stanzone di ospedale in cui giacevano le donne appena sottoposte ad aborto chirurgico. Le ho viste con le lacrime. Lacrime loro per la fatica. Lacrime mie per la compassione.

Incontrandole in ambienti intimi e protetti, come le sedute di agopuntura, le ho viste fragili, sole ed armate solo di una speranza inalienabile. Le ho viste spesso, troppo spesso in una sorta di lutto: sì, ho capito che sono donne ciclicamente in lutto, perché la scoperta di non essere riuscite ad iniziare una gravidanza, equivale alla morte di un progetto, alla morte di un sogno, alla morte di un pezzo della loro identità che chiede di essere madre.

Queste poche righe sono per loro, per portare a loro uno dei messaggi contenuti nel libro “Le mani della madre” di Recalcati: essere madre vuol dire permettere ad altri il diritto di essere, aggiungo io ora, pur senza procreazione. Le donne sanno guardare e rispettare l’altro in un modo talmente unico che, le donne, proclamano per tutti il diritto di essere al mondo e, anche quando non riescono a generare la vita, possono comunque trasmettere il sentimento della vita. Personalmente, credo che il sentimento della vita abbia come significato cardine la libertà di esprimersi e la responsabilità di curare. Si è madre quando ci si esprime al meglio e si genera un esempio di dedizione: la dedizione nel pulire la casa, nel fare il pane, nel vendere abiti, nel progettare ponti. Si è madri quando ci si prende cura del bello, del fragile, del giusto. La cura è soprattutto femminile e si può insegnare la cura anche senza avere figli. In un mondo dove si scrive per emoticon, si corre sempre, si mangia secondo il take away, si scrive e si posta mostrando e facendo rumore, le donne anche senza figli, sanno creare ed insegnare la cura che porta al silenzio ed alla pazienza, percorrendo insieme le vie che portano all’essenza, come canta Battiato.

E per chiudere un cerchio, tornando al pezzo su Tania Cagnotto, credo che, il migliore modo per lasciare davvero il segno nel mondo non sia solo o necessariamente dare al mondo altre vite, piuttosto sia guardare l’altro e curarlo fino a farlo diventare figlio, sebbene non creato. Siamo tutti d’accordo nel ritenere Madre Teresa di Calcutta una madre, pur senza aver generato figli.

Valeria Terzi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *