cultura

I nostri pomeriggi – un racconto di Benedetta Bindi

“”Individuo” vuol  dire  “che non si può  dividere “. Le  madri  invece si “dividono”, a  partire  da quando ospitano un  figlio  per darlo al  mondo  e farlo  crescere ”.
PAPA FRANCESCO

Settimana scorsa, per la festa della mamma, lei mi è tornata in mente, come capita ogni volta mentre metto i colori sulla tela. Madre, questa parola è associata a tre dettagli: il rossetto rosso, e la sigaretta alla menta tra le dita. La ricordo bella, come una diva del cinema. Se chiudo gli occhi, posso ancora sentire il profumo della sua acqua alle rose.
Quando mi abbracciava stretta, stretta, mi si appiccicava alla pelle. Il suo odore mi faceva addormentare serena, allontanava i brutti sogni. Ne facevo parecchi nel letto della casa famiglia, dove vivevo. Uno in particolare mi ossessionava, quello del cancello chiuso. Esisteva realmente nel nostro giardino, lo vedevo ogni volta che andavo di sotto a giocare, o quando la mamma veniva a trovarmi. Spesso lei si sedeva a fumare su una panchina, vicino alla palma. Quella grande inferriata verde, mi separava dal mondo circostante, e nei miei sogni si rompeva e non poteva più aprirsi. Mia madre suonava, e io spingevo con tutta la forza, ma il cancello rimaneva serrato.

Quando portavano me e gli altri bambini in villeggiatura, invece c’era un piccolo portoncino bianco e mura intorno, e dalle finestre vedevamo il mare. Era bello stare lì, mi sentivo libera e dormivo meglio. La mamma veniva a trovarmi, sempre nel primo pomeriggio, dopo la siesta. Mi portava al giardino fiorito della casa
coloniale. Le raccoglievo dei fiori, mentre lei seduta sulla panchina fumava. Una sigaretta dietro l’altra, come fossero vagoni di un treno. Buttava fuori il fumo dalla bocca e l’osservava, poi mi guardava e alzava gli occhi al cielo come a cercare qualcosa. Mi piaceva far finta di giocare, con un rametto o con qualsiasi cosa trovassi, proprio vicino ai suoi piedi. Sentivo i suoi occhi su di me, mi facevano bene. Memorizzavo le sue espressioni.

Una volta le ho visto una lacrima scendere dagli occhi, e la sua mano lesta a scacciarla come fosse un insetto. Mi ha fatto male, più del dolore che provavo ogni volta a vederla andare via. Spesso mi portava un foglio e una matita, la tirava fuori dal suo zaino colorato e mi diceva: “Fammi vedere se sei migliorata, un
giorno diventerai brava come me”.

Lei era stata una restauratrice, poi la sua vita era crollata con la morte di mio padre, e non riusciva a fare più nulla, tranne che fumare. Io piegavo le ginocchia per terra e poggiavo il foglio sulla panchina di pietra. L’ho ritratta molte volte, intera, o un suo dettaglio. Spesso era stanca, e nascondeva il suo dolore dietro a un sorriso. Desideravo renderla felice, i suoi “Brava!” ai miei disegni, mi lasciavano senza fiato, tanto mi emozionavano. Mi portava sempre una bottiglietta di cedrata, la mia bevanda preferita. Io la sorseggiavo lentamente, come se il tempo da trascorrere con lei, si condensasse in quella bevanda dolciastra. Ne bevevo con parsimonia, un goccino alla volta, fino a quando le si alzava, e io capivo che era giunto il momento di finirla. Speravo che diventasse “una apposto”, come Suor Anna voleva. Sapevo che in mia madre qualcosa non andava, lo capivo da come si muoveva, da come aggrediva la suora se le diceva qualcosa che a lei non andava bene. Le si gonfiava la vena sul collo, e io temevo potesse rompersi tanto le si ingrossava. Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa alla suora, anche strangolarla, tanto era più alta e forte, ma la ragione, fortunatamente l’ha sempre trattenuta. Le poche volte che ho trovato il coraggio, e le ho domandato quando sarei andata via con lei, mi rispondeva: “C’è tempo”.

Nella mia testa di bambina, ero convinta che se fossi diventata veramente brava a disegnare, forse lei sarebbe guarita dai suoi tormenti e mi avrebbe ripreso con sè. Per mia madre è stato un colpo troppo duro perdere mio padre all’improvviso. L’ha salutato al mattino e la sera non è rientrato a casa, investito da una moto. Io ero molto piccola, nemmeno lo ricordo. I nonni erano troppo vecchi, perché io potessi vivere con loro. Le suore mi hanno accolto con tanto amore, ma io desideravo solo quello di mia madre. Ogni tanto lei mi parlava di mio padre, mi faceva vedere le sue foto. Era bello, con la barba scura e due occhi celesti come il cielo. Era stato un architetto, avevo progettato una scuola che aveva costruito in una città del sud Italia. Mi ripeteva spesso che mio papà era un genio, e che io avevo i suoi occhi e le sue mani. Poi un giorno, mentre giocavo a ricreazione con le mie amiche, SuorAnna mi prese con sè e mi portò nel suo studio. Dal suo
sguardo capii tutto, subito, perché forse dentro di me ho sempre sentito che era legata a mia madre, da un filo leggerissimo, pronto a spezzarsi da un momento all’altro.

Seppi che era salita al cielo. Io mi divincolai dall’abbraccio di Suor Anna, dalle sue parole che parlavano di un Dio che porta le anime buone in posti meravigliosi. Volevo portare, io, mia madre in un bel posto. Corsi in camera mia e piansi, fino a quando di lacrime non me ne rimasero più. Dopo un anno mi adottò una famiglia. Alessandro è diventato subito il padre che mi è sempre mancato, ed è una tra le persone più importanti della mia vita. Sandra, sua moglie, è una mia amica, ma non è mia madre. La mia si chiamava Brigitta, e rimarrà lei, per sempre. Io ora sono un’artista. Mi dicono che ho talento, vendono a caro prezzo le mie opere. Per mia madre mi sforzavo di fare disegni unici, m’impegnavo così tanto da stare fissa su quel foglio fino a quando non mi facevano male le mani e gli occhi. Che fossi al parco, o nella mia stanza, o al banco di scuola. Quando lei non è più venuta a trovarmi, ho continuato a disegnare. Il dolore che provavo era più facile da sopportare. I colori erano i miei angeli custodi. Ora ho quarant’anni, e posso dire che ce l’ho fatta. Sono sposata, ho una figlia, e la mia arte non mi abbandona mai. Non è stato facile nulla, ma ho lottato come una guerriera. Ricordo ogni giorno le sue parole, le sussurrava sempre al mio orecchio, prima di andare via: “Qualunque cosa tu possa
sognare di fare, incominciala”.

Così dico a mia figlia, prima che si addormenti.

Grazie mamma, per i tuoi abbracci al profumo
di rosa, per le tue boccette di cedrata, per il
tuo sorriso, e per aver incoraggiato i miei
passi.

Auguri mamma!

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