cultura

La scrivania – un racconto di Benedetta Bindi

“Ma io vi dico: Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio”(Mt 5,21-22).

Se n’è andato così improvvisamente, sono tornata a casa dopo il lavoro, e non ho l’ho più trovato. Non dico che dovesse rimanere con me per sempre, non lo immaginavo mica, era troppo strano lui, troppo esigente io. Passava le giornate a scrivere sul suo blog. Curvo sul portatile. Era buffo guardarlo di profilo, lungo,
lungo, con le sue giacche troppe grandi. Le spalline gli scendevano sempre giù, come ai pagliacci. Sullo sfondo la finestra, dalla quale osservavo il muoversi lento del cipresso, quando tirava il vento. Alto, lungo, com’era lui, sembrava la sua ombra. Contrastava l’arco della schiena di Carlo, con l’orizzontale della mia scrivania. È bella, di legno, l’ha fatta per me lo zio Eugenio. Era così felice che almeno uno dei suoi nipoti, cioè io, si fosse iscritto all’Università. Quando me l’ha portata a casa, all’interno dei due cassetti che ha fatto, aveva messo: quaderni, evidenziatori, penne, matite. Come fossi una bimba che va in prima elementare. Ricordo che mi ha posato le sue mani forti e callose, sulle mie braccia secche e lunghe, e guardandomi dritto negli occhi, con quel naso rosso, perché ha il vizio del vino e mi ha detto: “Almeno tu dammi soddisfazione Rita!”

È rimasto deluso da Luca, mio cugino, lavora in officina. Mio zio desiderava si laureasse, ha solo lui, invece suo figlio ha preferito stare sdraiato a pancia in su ad aggiustare motori. Ognuno è fatto a modo suo. Io penso che bisogna seguire ciò che ci piace, altrimenti è come tradire se stessi. Se un lavoro non lo fai con passione, lo esegui con sciatteria. La parrucchiera dove andavo, ha una figlia che per farmi colpi di sole ha usato due volte l’ossigeno a quaranta volumi. Le ho detto: “Albertina non sarà troppo forte?” Lei mi ha guardato con suoi occhi a bombola, cosparsi di corposo rimmel e ha riposto: “Tranquilla Rita, ti ho messo la crema protettiva!” Tempo dopo ho visto che mi cadevano i capelli, sono andata in un altro salone, dove mi hanno confermato che mi aveva rovinato. Poveretta! Sognava di fare la ballerina, mi ha detto che aveva avuto un’occasione a Milano, ma i suoi si sono messi di traverso, era minorenne, serviva il loro consenso. È stata obbligata a imparare a passare le tinte, a tagliare i capelli, ma con la testa è altrove, su un palcoscenico dove fa sforbiciate e spaccate.

Per questo trovo giusto che Luca faccia miracoli con il cacciavite, lo dimostrano i tanti clienti che ha. L’ho detto a mio zio, ma lui mi ha risposto che capirò quando avrò dei figli. Io ho studiato, mi sono laureata è vero, però mi consumano. Chiusa in quell’ufficio ore e ore, mentre la vita mi scorre via veloce. Ho trenta tre anni, sei sono voltati a fare gestione della contabilità, pratiche per il dritto del lavoro. Appena assunta mi hanno detto che col tempo avrei fatto carriera, per ora sono sempre ferma al solito stipendio. Mandano avanti gli uomini e le amanti. Anche se il mio capo mi dice che sono preziosa, a me non basta più. Chissà… forse ha fatto bene mio cugino, alle sette di sera è già in palestra, mentre io a quell’ora se hanno bisogno di me, non so dire di no, e il mio corpo da tonico che era sta diventando
un’acciuga secca. Basta! Non voglio pensare al mio lavoro, altrimenti scendo in un buco nero, e finisce che ci vegeto.

Alcune volte al buio ci si abitua, è pericoloso. Ultimamente mi è parso d’esser cieca, di muovermi toccando le pareti e gli oggetti. Ho ignorato cosa fosse la luce. Ma ora, dopo quello che ho fatto, lei è tornata e mi sento bene, libera. Ho letto un’intervista a Cesare Pavese, tanti anni fa mentre lo studiavo al Liceo, diceva che si ricordano gli attimi non i giorni, è vero. Da quando è sparito, l’immagine di Carlo curvo a scrivere mi ossessionava, mi toglieva la voglia di mangiare, di dormire, di vivere.

Sto guardandomi le mani, mani d’assassina. Non è sangue, sono macchiate di vernice, ho pitturato tutta la scrivania. Dicono che il rosso sprigioni energia, fa più effetto di una doccia fredda. Dopo esco e vado a brindare alla vita, a quella che ho perso e a quella che mi rimane. Carlo se ha amato davvero qualcosa in questo appartamento, è stata la mia scrivania. Ogni tanto ci posava le sue dita lunghe e mi diceva: “Rita ma lo sai che è proprio bella, così liscia, con queste venature, ma che legno è?”, io gli rispondevo risentita che non lo sapevo, anche se lo zio mi ha ripetuto mille volte che è di acacia, sottolineando che proviene da foreste gestite in maniera responsabile, sa quanto tengo all’ambiente. Mentivo a Carlo per rabbia, a me lui non mi carezzava mai con quella dolcezza, con la quale toccava lei. Con me era rozzo, scaricava le sue voglie senza affetto, con un trasporto animale. Fare l’amore per lui era come mangiare, bere, respirare. Soddisfaceva i suoi bisogni, poi si accendeva una sigaretta in finestra, o si rimetteva a scrivere, o diceva: “Ho fame”. Io gli rispondevo: “Apri il frigo, o cucinati qualcosa!” Ci rimanevo male che nemmeno mi facesse due coccole. Lui non lo capiva mica, macchè, mi rispondeva: “Puoi usare un tono meno acido”. Ogni tanto prendevo coraggio e gli dicevo che potevo esserci io, o qualsiasi altra donna a fare l’amore con lui. Si arrabbiava. Sosteneva che ero troppo romantica, che volevo rose e violini, mentre la vita è lavoro e sofferenza. Lo diceva a me, che mi sveglio ogni giorno alle sei e rientro alle otto di sera. Mentre lui lo lasciavo al mattino che ancora russava sotto le coperte, dalle quali uscivano i suoi pedi enormi tanto era lungo. Aveva coraggio a dire certe affermazioni, ma non ne ha avuto sparendo senza spiegazioni.

La sera prima che andasse via, abbiamo cenato insieme in un cinese, mi aveva anche preso la mano, io speravo in una frase d’amore, ma ha solo bofonchiato: “Rita, Rita…” , poi si è fermato come se gli fossero morte le parole nella bocca. Solo adesso immagino cosa volesse dirmi. Io l’ho guardato addolcendo la voce e ho risposto: “Amore dimmi, Rita cosa?” Lui ha arricciato il suo grande naso, e ha sospirato: “Bel posto, non c’è puzza di fritto, si mangerà bene”. Io ho sentito la nuvoletta di drago che avevo messo in bocca, che stava per soffocarmi insieme alle sue parole. Ho bevuto tutto d’un fiato il boccale di birra, per stordirmi e non
rovinarmi la serata. Desideravo far finta che eravamo una bella coppia, come quella che spiavo baciarsi al tavolo davanti al nostro.

Carlo era insofferente per molte cose: gli odori troppo forti, la musica in macchina, i neon, chi parlava troppo, il traffico e il rossetto. Ma soprattutto, dopo cena odiava la televisione accesa in casa, ad eccezione di una serie che danno su RaiTre dopo il telegiornale che seguiva da anni. Spesso leggeva, o voleva fare giochi in
scatola. Ne amava uno in particolare: master mind, dove lo scopo è di creare una combinazione di colori che non consenta al decifratore di risolverla prima di aver finito il proprio numero di tentativi. Mi annoiava terribilmente, lo trovavo stupido, ma lui ci andava matto e l’accontentavo. Cosa che lui non ha mai fatto con me, se dovevo comprarmi un abito, mi mandava sola o con un’amica, perché odiava anche andare per negozi.

Di notte per giorni, mi sono svegliata con il cuore che batteva all’impazzata. Andavo in salotto a vedere se per caso non fosse tornato. La scrivania vuota mi uccideva, era piena di lui seppur nella sua assenza. Gli avrei dato fuoco. Così oggi mi sono svegliata e mi sentivo bene, c’era il sole, mi sono detta: “Oggi lo faccio!”, avevo un barattolo di vernice rossa, e l’ho dipinta. O la gettavo dalla finestra, insieme ai miei ricordi, o la facevo diventare qualcosa di diverso, tanto era inutile aspettarlo. Avevo preso coscienza che lui da me, passati ormai venti giorni non sarebbe più tornato. Poi ho guardato Instagram, come spinta da un sesto senso…Carlo aveva postato una foto, si vedeva in primo piano una scrivania bianca coperta da un nailon, con una mano di donna poggiata e sullo sfondo uno stanzone peno di quadri. Ho riconosciuto l’anello, quello con il gufo. Era di Julia, l’amica di mia cugina pittrice. Lei è tedesca, vive in campagna. L’abbiamo conosciuta la sera
dell’ultimo dell’anno. Era simpatica, parlammo molto di quel buffo anello colorato. Mi aveva detto che l’aveva creato sua sorella, vive a Monaco e sta aprendo il suo secondo negozio di bigiotteria. Io lo trovavo brutto, ma le ho detto che era meraviglioso. Carlo il giorno dopo ne ha riparlato con entusiasmo. “Un gioiello veramente originale quel gufetto”. Pensavo lo facesse solo per contraddirmi, gli ho risposto: “ Non hai gusto, roba che può mettere una ragazzina, è kitsch e costerà una fortuna”. Da lì è partita una lite nella quale ci abbiamo messo tutto dentro. Il mio essere ordinata fino all’ossessione, il suo essere disordinato, il mio essere ambiziosa, il suo non esserlo, il mio essere poco socievole con i miei amici, il suo criticare tutti i miei amici ….Il primo dell’anno insomma è iniziato male! Io ho pensato che avevamo bevuto troppo la sera prima e dormito poco, per questo eravamo nervosi oltre il dovuto. Invece Carlo si stava già innamorando della tedescona dagli occhi celesti. E così da quella foto postata su Instagram, ho saputo dov’era sparito, e perché non mi rispondeva al telefono.

Ho chiamato mia cugina, alla quale non avevo ancora detto che lui mi avesse lasciato, nella vana speranza tornasse. Mi sono fatta dare l’indirizzo della tipa, ho inventato una scusa, le ho detto che ero in Sabina per un cliente, e volevo passare a vedere i suoi quadri. Sa che amo la pittura, non ci ha trovato nulla di strano. Mi ha risposto: “Prima chiamala, magari non è in casa, ti lascio il numero”, le ho ricordato che la sera dell’ultimo dell’anno, Julia si lamentava che in campagna non prendesse il telefono. Ha risposto: “Hai ragione, vero, da lei spesso non prende mai”. Ho appuntato l’indirizzo su un blocchetto, e mi sono seduta vicino al termosifone, mentre Lillì il mio gatto, m’è venuto in grembo. Ho pensato che negli ultimi mesi, quando ero a lavoro, Carlo andava da lei. Carezzavo il gatto per calmarmi, e fissando fuori dai vetri il sole che tramontava. Il mio cuore si è calmato pensando a un regalo che mi aveva fatto lo zio . Così oggi ho preparato una bella torta alle mele, Carlo l’ adorava. Per il resto diceva che ero un disastro che non sapevo cucinare, che ero fatta per il lavoro e nient’altro. Quando mi diceva così gli rispondevo : “Allora cucina te, io almeno i soldi a casa li porto” e mi chiudevo in bagno a fare la doccia e piangevo, tanto mi sentivo umiliata. Lui spesso preparava spaghetti: aglio, olio e peperoncino. Perché anche fare la spesa gli faceva fatica, io tornavo tardi con la speranza che almeno fosse andato al supermercato invece…Mi diceva che aveva troppo lavoro, doveva cercare clienti che gli inserissero pubblicità nel blog , per guadagnarci qualcosa. Anche se nei sette mesi trascorsi da me, ho pagato tutto io. Lui solo qualche cena fuori. Scendeva al bar a mangiare, poi risaliva a casa a scrivere. Mi ribollivano in mente vari pensieri,
mentre mettevo la torta in forno con un unico desiderio: andare da lui e farlo morire di paura. Fargli provare come ci si sente a sentirsi indifesi.

Mio zio appena sono andata a vivere a Roma, mi ha dato un pacchetto, dicendomi di non dire nulla a nessuno. Non si fidava che stessi tutta sola, in un appartamento tanto grande. Era della mia nonna paterna, sua madre. Insomma lo zio mi ha messo nelle mani una pistola, e ha detto: “Ora ti faccio vedere come si
usa, poi nascondila, prendila solo in caso di necessità. La vita per una donna sola è piena di pericoli”. Così oggi colma di rabbia, per aver visto dove era andato a finire Carlo, ho messo la torta appena sfornata in un apposito contenitore, preso nel cassettone della stanza dove dormiva la nonna. Ci sono ancora i suoi oggetti, il suo letto, e il suo armadio, che ho sempre chiuso a chiave. Avevo messo nascosto un suo pullower turchese l’arma. Prima di prendere la pistola, ho annusato la lana calda, nella quale sento ancora l’odore di nonna Margherita. Ho pregato che mi desse la forza per fare quello che mi ero prefissata. Mi sono girata intorno nella stanza, la sua presenza è nei muri, nelle scatole vuote e nelle tende damascate. Poi si sono specchiata nell’armadio, e tenendo l’arma puntata davanti a me, con le braccia tese ho detto: “Sarai fiera di me! Non si umilia così una donna!” Ero bella con il vestitino viola corto, le gambe lunghe, il caschetto nero e lo sguardo fiero.
Poi ho chiuso la porta della stanza, ho preso la torta e sono uscita diretta a casa di Julia.

Non lì ho sorpresi insieme, la sorte ha voluto che la tedesca fosse appena uscita, diretta in centro città con un’amica. Io ho fatto finta che fossi tranquilla, quando Carlo mi ha aperto la porta ha fatto una faccia, come se avesse visto un fantasma. Gli ho detto con un gran sorriso: “Ho saputo da mia cugina che abitavate qui insieme, dovevo vedere un cliente qui vicino e ho detto passiamo”. Poi con un tono di voce sicuro di me, ho ripreso a parlare entrando dentro la casa, prima che potesse fermarmi , ho ripreso a parlare con un tono di voce calmo: “Potevi dirmelo che ti eri innamorato, l’avrei capito”. Carlo ha abbassato gli occhi, ha messo le mani in tasca, e mi ha detto: “Scusami non sai quanto mi dispiace, ma ti volevo così bene…. non ho avuto il coraggio di dirti la verità, ho pensato che era meglio sparire all’improvviso”. Ho sentito le mie guance diventare di fuoco, mentre lui mi faceva cenno di seguirlo in cucina, una tempesta stava divampando in me. Ci siamo seduti, mi sono tolta il cappotto e ho detto: “Fa caldo qui dentro”, lui ha indicato il camino in cucina e mi ha risposto: “Forse ha messo troppa legna Julia, esagera sempre ”. Come se lui vivesse lì da sempre. Ho pensato alla pistola e ho trattenuto le mani dal fare gesti istintivi. Poi h messo sul tavolo della cucina la torta e gli ho detto: “Guarda cosa ti ho portato, l’unica cosa che facevo bene! Lo dicevi sempre ricordi ?”, lui ha sorriso, era bello, maledettamente bello, un po’ abbronzato, con una camicia a righe un poco aperta, potevo vedergli i peli sul petto, quelli nei quali avevo messo le mie mani, posato le mie labbra. Mi ha guardato con uno sguardo dolce, le sue guance sono arrossite e toccandomi il ginocchio con la mano mi ha detto: “Sapevi fare tante cose bene tu!”

A quel punto gli avrei sparato in fronte, all’istante, ma ho messo ancora a freno l’istinto. Dopo anni in ufficio, ho acquisito una certa padronanza nel gestire le emozioni. Gli ho detto: “Mi fai vedere l’atelier?”, mi ha detto di seguirlo. Siamo entrati in uno stanzone dalle pareti bianche, immenso, con delle finestre rettangolari
dai vetri sporchi attraverso i quali si vedeva la campagna. C’era una confusione totale, quadri alle pareti, per terra, appoggiati ai muri, il caos. In un angolo della stanza, una scrivania bianca simile alla mia, ricoperta da un sottile cellofan e una sedia rossa. Ci sono andata vicino e gli ho detto: “Bella! È nuova?” e lui: “Sì, un
regalo”. Un’altra sua indelicatezza che poteva risparmiarmi, perché era un dono sicuramente fatto a lui per lavorare. “Siediti per favore” ho detto con voce ferma, come fosse un ordine. Lui ha risposto: “Perché?”. Io avevo la pistola, una Beretta a doppia azione, nella tasca della piccolissima borsa che avevo a tracolla. Ho aspettato a rispondere, poi gli ho detto: “Dai… solo un minuto, voglio vedere come ci stai ”, lui provava un grosso senso di colpa nei miei confronti, ha accettato senza più discutere, altrimenti non l’avrebbe mai fatto.

Si è seduto, alzando le sopracciglia come a dire: “Bah ok come vuoi, se ti fa piacere ” con un ghigno, poi accomodandosi mi ha detto: “Va bene così?” in un secondo ho tirato fuori la pistola e gli ho sparato tre colpi, due in testa, uno al collo. Lui è caduto per terra, io avevo ancora i guanti in borsa, neri di pelle di mia nonna. Gli ho messi, poi l’ho preso da sotto le ascelle, pesava terribilmente, e l’ho trascinato sopra una tela non finita, riversa a terra. Così a sfregio per la tedescona, una nuova opera. Poi ho aperto i cassetti della camera da letto, ho fatto un po’ di confusione, per simulare un furto, ho trovato anche tre anelli con gli animali. Ho messo tutto in una busta e poi ho gettato tutto in un cassonetto mentre ero per la strada.

Tante volte quando mi trattava male ho cominciato a pensare alla pistola che avevo nell’armadio, nascosta sotto il maglione della nonna. Ci pensavo e mi sentivo calma, ci pensavo mentre rifacevo i conti in ufficio, mentre ero in metropolitana. Ci pensavo quando salivo e scendevo le scale del mio appartamento spesso in
preda alla sconforto, per come andavano le cose con lui. Non è l’infedeltà quella che mi ha spinto a sparare, ma la sua indifferenza, il suo disprezzo. Quando mi ha detto sospirando: “Come vuoi” e si è seduto sulla sedia, come fossi una stupida, una matta che gli faceva pena e l’accontentava, l’ho trovato disumano. Non ha capito cosa significasse per me vederlo un’ultima volta, nella posizione che l’avevo sempre visto a casa mia. Non immaginava il mio dolore, quando notavo la sua assenza in salone, la scrivania vuota. Era come avere pezzi di vetro conficcati in testa, sempre, continuamente. “Lo capisci questo?” Avrei voluto urlargli. “Sai il male che mi hai fatto a sparire senza dirmi nulla! Non si trattano così gli esseri umani!” Era così bello oggi, con il sole che gli illuminava i capelli , il volto di un ovale perfetto, le labbra turgide, non gli avrei mai sparato, mai. Se solo fosse stato in silenzio…..Mi sarei accontentata di fargli solo paura, gli avrei puntato la pistola addosso, per vedere il suo volto terrificato, lo stesso che ho avuto io: per ore, giorni, mentre sola in preda al panico piangevo urlando il suo nome. Dopo averlo spaventato, gli avrei detto che era una pistola a salve, mentendogli. Avrei riso, lui si sarebbe arrabbiato, io gli avrei detto che non aveva senso dell’ironia, cosa che gli ripetevo spesso, poi salutandolo, sarei uscita dalla sua vita per sempre.

Ma ha voluto ferirmi ancora, e ancora, come se non fosse stato abbastanza ciò che mi aveva fatto. Ora vado a pulirmi questa vernice rossa, e se mi prendono, se mi arrestano, se mia sorella mi tradirà, e non mi aiuterà a trovare un alibi, dirò davanti al giudice: “Mi dica lei come si può sopportare tante dolore?!La prego me lo dica!”

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