cultura

I due vasi – un racconto di Benedetta Bindi

Con “I DUE VASI ” inizia la collaborazione con noi la scrittrice Benedetta Bindi che avete conosciuto in questa intervista. Grazie Benedetta e benvenuta da tutti noi de Ilcentuplo. E’ sera, sta per finire la settimana e presto ne comincerà un’altra quindi godiamoci, in pace, questo bellissimo racconto.

“Era quasi l’alba, avevo perso totalmente il sonno, una cosa che mi capita spesso, ultimamente. Mi sono infilata la vestaglia e le ciabatte, e sono andata in cucina. Era una di quelle mattine dove tutto quello spazio mi dava i brividi, mi ricordava la mia solitudine, mi ricordava un’assenza.

Ho preparato un tè e con la tazza in mano sono andata in soggiorno. Il mio salotto è enorme, con un bellissimo parquet. Mi sono seduta sulla sedia a dondolo, un regalo di Carlo, vicino alla porta finestra, da lì si vede il parco, vasto, bellissimo. Ho appoggiato la tazza al tavolino posto tra la vetrata e la sedia, e mi sono accomodata lentamente, per non rischiare di finire a terra. Non ho rivolto lo sguardo agli alberi come d’abitudine, no, quella mattina un raggio di sole si dirigeva proprio sulla boiserie. In alto su una mensola, dove troneggiano i miei due vasi. Belli, grandi, arancioni, con  riflessi dorati.Contengono le persone che più ho amato nella vita.

Non so cosa mi abbia detto l’istinto, alla mia età si fanno cose senza un vero perché, forse il motivo è nel tempo che abbiamo a disposizione, infinito. Possiamo perderci un pomeriggio intero: in un romanzo, a cucinare, oppure nel guardare un album fotografico o un film. In ogni caso quel giorno, volevo appagare la mia curiosità e vedere se le ceneri dei miei cari non si fossero dissolte improvvisamente. Così mi sono alzata e sono andata  a  sollevare il coperchio di entrambi : depositate nel fondo ho visto quel mucchietto grigio, che spesso ho pensato di gettare dalla finestra, in una giornata di vento.

Ma il coraggio mi è sempre mancato. Poi richiudendoli sono tornata a sedermi, e invece di gustarmi il mio tè caldo me ne sono dimenticata del tutto, presa dal filo dei miei ricordi. Mi è venuto in mente Francesco, mio marito, l’università. Ero in un’aula enorme, affollata, mi sentivo smarrita, mi domandavo perché dovevo andare sempre controcorrente, perché non avevo seguito le mie amiche a Lettere. Ero così insicura, c’erano molti ragazzi lí, mentre le donne si contavano sulle punte delle dita.

Stavo per abbandonare la lezione, ero in piedi vicino alla porta,  quando arrivò questo ragazzo di corsa, con indosso un maglione rosso, i ricci, tanti e neri e quegli occhialini piccoli, tondi. La sua aria affaticata un poco stralunata, mi piacque subito. I nostri sguardi si incrociarono. Le nostre spalle si sfiorarono, ed io mi sentìi improvvisamente al sicuro. Volevo cambiare facoltà è vero, ma il bacio che arrivò da Francesco, improvviso, alla fermata del tram, cambiò la direzione della mia vita. Io e mio marito siamo sempre state due anime calme, due studiosi che si perdevano negli atomi e non perdevano tempo a litigare per cose banali di una vita trascorsa insieme. Sentivo le mie amiche lamentarsi in continuazione, per quello o per quell’altro motivo. Io no, ho vissuto bene. Animati entrambi da una passione, che non ci ha mai divorato ci creavamo i nostri spazi senza sopraffarci.

La fisica ci ha permesso di vedere le cose in modo diverso. Ci ha fatto guardare lontano. Sia io che Francesco eravamo pieni di pregiudizi prima dell’università, con un’immagine parziale del mondo che continua a cambiare, mentre lo vediamo.  Studiando abbiamo capito che siamo parte integrante, non  osservatori esterni del mondo. Siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie. Questo ci ha sempre entusiasmato, questo l’altro giorno mi ha salvato.

Poi ho posato lo sguardo sull’altro vaso, quello con le ceneri di Carlo, e il dolore al suo ricordo è stato di una tale intensità, che nemmeno le gocce che prendo riescono a lenirlo. In quell’istante  l’ho visto in braccio a me, piccino, mi ricordai alle carezze infinite che gli davo, ai baci sulla pelle, liscia e profumata dei piccoli. Ne ricordo ancora l’odore, lui estensione del mio corpo. Pensai alla sua crescita improvvisa, che stupì me e mio marito: non credevamo diventasse così alto. Alla sua intelligenza acuta, superiore alla mia, superiore a quella di Francesco. Mi sono domandata spesso che carriera strepitosa avrebbe fatto, si era già distinto per le sue ricerche.

Lui è sempre stato il mio primo pensiero al mattino, e l’ultimo la sera.

Non abbiamo voluto altri figli io e mio marito, eravamo  presi dal nostro lavoro, poi Carlo ci riempiva, era presenza, forza, vita, la mia.

Era stato assunto al Cern di Ginevra, e lo avevamo festeggiato tutti in famiglia. Aveva raggiunto il suo traguardo giovanissimo. Era il suo sogno da quando era un ragazzino, un desiderio che portava sulle spalle insieme ai suoi libri.

Era tornato a Roma per festeggiare i miei staramaledetti ottant’anni. Ricordo la chiamata in piena notte, disumana e irriverente, un rasoio affilato che mi ha  procurato un ferita che nemmeno i medici sono riusciti a saturare. Io non volevo venisse in Italia, al telefono gli avevo ribadito che sarei andata io da lui, a breve. Mancava solo un mese a luglio, ogni estate, da quando era morto Francesco trascorrevamo i mesi estivi insieme. Carlo  forte e deciso sin da piccolo, si è presentato all’improvviso per farmi una sorpresa. Mi ha amata sempre, mi ha amata troppo.

La sera  dopo i miei festeggiamenti, è uscito con i suoi vecchi amici della scuola, e mentre era fermo ad uno stop,  il destino ha scelto lui.

Ho ripreso la mia tazza di tè ormai raffreddata, ma non riuscivo nemmeno a mandarne giù un sorso dalla rabbia quel mattino. Mi rigiravo la fede al dito come se lo volessi staccare, avrei voluto sputare via il mio passato, se fosse stato possibile. Avrei voluto buttare via me stessa!

Ero stanca, stanca di essere sola. Stanca di non avere avuto il potere di modificare l’andamento della mia vita, come facevo invece in laboratorio con gli elementi: combinavo,  scombinavo, rifacevo, toglievo, io ero quello da eliminare,`non mio figlio, non lui!

Sentii cinguettare e guardai la finestra, su un ramo un passerotto mi guardava, il cielo era di un celeste intenso, ero consapevole che in quell’universo infinito con sole, stelle e pianeti non c’era nessuno che lo  governasse, se non le leggi della fisica.Però la ragione mi aveva abbandonato, non mi aiutava a trovare risposte ai miei perché. Forse è in quei momenti che si manifesta la fede, io  ricordo che ho incrociato le mani e ho pregato,  al cielo di portarmi via. Volevo rivederli i miei uomini, erano stati il senso della mia vita, insieme alla fisica. Lacrime amare  mi hanno rigato il volto. Singhiozzavo quando ho udito la chiave della porta girare. Ho tirato  fuori il fazzoletto di stoffa e mi sono asciugata in fretta.

Era Silvia, mia nipote, la figlia di Carlo che vive in Svizzera. È corsa ad abbracciarmi.

Improvvisamente ho smesso di pensare al paradiso o a qualsiasi cosa ci fosse lassù. Le ho chiesto cosa ci facesse a Roma.

 « Nonna oggi è il tuo compleanno” mi ha risposto, “Non ricordi? Hai detto che non volevi venire a Ginevra, che andavi da un’amica al Circeo, ma io ti conosco, ti conosco troppo bene. E poi tu non sai dire le bugie ! La tua voce ti ha tradito. Sai nonna, mi iscriverò a Fisica anch’io. Voglio studiare nell’università dove avete studiato tutti, dove ha studiato papà. Potrei stare da te? Potresti aiutarmi a preparare qualche esame!».

Sentivo le sue braccia esili, esili, attorcigliate sul mio corpo, pensai a quanto poteva mancarle il papà, sapevo che era stata male per mesi.  Erano legatissimi, padre e figlia. Mi si contrasse lo stomaco e trattenni le lacrime. Ero felice di vederla forte e decisa, proprio come era lui. Pensai a sua madre: mio figlio aveva sposato una donna in gamba, Geremy era americana, fisica anche lei, e  lasciava alla figlia la libertà di scegliere senza influenzarla, come avevo fatto io con mio figlio.

Mia nipote, sì, era un buon motivo per guardare la terra e non il cielo, per tornare ad essere una donna razionale. Ero stata una fisica io, non un’astrofisica !

Andai a vestirmi, misi un abito a fiori, scollato. Al parco Silvia mi teneva stretta la mano, adorava quella Villa, con i suoi sentieri ancora selvaggi. Le piaceva vedere le altalene dove un tempo la portavo. Poi abbiamo fatto colazione da Sandro, e dimenticando la glicemia, ho preso insieme a lei un bel cornetto alla crema. Ho sorriso a mia nipote, pulendole con un tovagliolo di carta un baffo di crema, al lato della bocca, proprio come facevo quando ero piccola.

Sono passati mesi da quella mattina, e mi sento decisamente meglio di allora. Oggi mi metterò ai fornelli, voglio cucinare a Silvia qualcosa di buono, sta tornando dall’università, avrà certamente una gran fame. Lei manda avanti questa vecchia macchina che è il mio corpo, un po’ ammaccato,  ma ancora in grado di muoversi, Silvia è la mia benzina.

Un pensiero su “I due vasi – un racconto di Benedetta Bindi

  • patrizia

    ritengo che I Due Vasi sia il racconto più bello scritto da Benedetta. E’ intenso, commuovente e quando lo leggi sembra di partecipare alla storia!!!

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