Baki e il freddo di questi giorni a Napoli
Si parte. Le auto strapiene di confezioni di cartone, con la scritta “A cor a cor”. Cuore a cuore. A tu per tu. Faccia a faccia. Arriviamo. Portiamo la cena calda ai fratelli e alle sorelle senzatetto alla stazione centrale di Napoli. Stranieri ma anche tantissimi napoletani. Parcheggiamo. Ed ecco, come per incanto, nel giro di pochi minuti, spuntano da ogni direzione. Hanno fame, ma è soprattutto il freddo il nemico che li terrorizza. Offriamo loro quel che abbiamo. All’interno della stazione non possiamo entrare, ci sono regole precise da osservare e che rispettiamo; ma, per la verità, non ce n’è bisogno. Nel giro di un’ora il nostro carico di carità è praticamente finito.
Con alcuni ragazzi mi porto verso l’ampia piazza antistante che si sta rifacendo il trucco. È giusto. La stazione, come l’aeroporto, è il primo biglietto da visita di una grande città. E occorre fare di tutto per renderla più bella, accogliente, vivibile. Addossato alla parete di una baracca di lamiere ci imbattiamo in un mucchio di stracci abbandonati. Ci avviciniamo. Chiamiamo. Qualcosa si muove. Ed ecco un volto, giovane, bello, africano. Capelli arruffati, nerissimi. Ci sorride. Sorridiamo. «Ciao. Hai fame? Abbiamo da mangiare, vuoi?». «Sì, grazie». E allunga debolmente la mano scarna. «Come ti chiami?». «Baki». «Da dove vieni?». «Dal Mali». Africa. E già il pensiero, in un baleno, ripercorre la storia passata e quella più recente di questo Paese.Il freddo ci punge le guance. Pioviggina. Il Vesuvio è innevato. La temperatura sta andando a picco. La gente, imbacuccata, si affretta a rientrare a casa. «Baki, inizia a piovere, e tu non hai nemmeno una tettoia per ripararti. Come farai?». Sorride ancora. E con la mano indica un pezzo di legno leggero. Si coprirà con quello. Antonello gli poggia una mano sui capelli, una sorta di timida carezza. È padre da poco. «Quanti anni hai», gli chiede. «Diciotto».A diciotto anni, Baki, ha lasciato la sua terra, la sua famiglia, i suoi amici, le sue tradizioni per venire a dormire sotto il cielo di Napoli. Ce ne torniamo mestamente. «Antonello caro, il Signore ci sta sfidando, te ne sei accorto? Nei giorni scorsi abbiamo cantato “Tu scendi dalle stelle… e vieni in una grotta al freddo e al gelo”. Stasera, ci ha permesso d’incontrarlo reietto e intirizzito. Era a lui che hai accarezzato i capelli. A lui abbiamo abbiamo chiesto di voler rimanere sempre e per sempre “Cor a cor”. Baki era lui, Antonello».
I fratelli e le sorelle senza tetto continuano ad arrivare. Chiedono giubbotti, coperte, scarpe pesanti. Non abbiamo più niente. Che possiamo fare? È inutile, stasera, recriminare, lamentarsi, discutere sulle politiche pro o contro l’immigrazione, pro o contro il sostegno alla povertà totale. Stasera a noi interessa solo fare qualcosa, e in fretta. Domani farà più freddo. Registriamo un video di pochi minuti: «Sono padre Maurizio. Ci troviamo alla Stazione centrale di Napoli. Fa un freddo cane. I fratelli bisognosi chiedono coperte e giubbotti. Non ne abbiamo. Aiutateci». E, come sempre, nel giro di pochi minuti, decine di persone rispondono all’appello. I vicini arriveranno in parrocchia con il loro carico prezioso, i lontani chiedono di poter inviare un’offerta, i fratelli e le sorelle, impediti per età, malattia o povertà, promettono preghiere.
Nelle prossime ore torneremo alla Stazione centrale con gli aiuti necessari perché nessuno muoia di freddo. E, come e più di noi, la Caritas, le parrocchie e tante altre associazioni cattoliche e laiche si stanno mobilitando. No, non abbiamo risolto i problemi della povertà, della casa, del lavoro, dell’immigrazione marginalizzata. Non ne abbiamo la possibilità. Vogliamo solamente che Baki, e tanti come lui, non muoiano congelati in una fredda notte italiana di gennaio. E questo ci dà gioia. La strana e incommensurabile gioia cristiana sempre intrecciata al dolore e allo sconcerto nel constatare come l’umanità distribuisce ingiustamente le sue ricchezze.
Maurizio Patriciello.
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