Nessuno strumentalizzi la morte di Paola, neanche l’Arcigay
La violenza, in tutte le sue forme e declinazioni, è orribile. Sempre. Orribile è stata la morte di Willy, orribile la fine di Evan, il bambino di 21 mesi ucciso dalla stessa mamma e dal compagno di costei, in Sicilia; orribile la fine del neonato gettato vivo dal balcone in provincia di Salerno pochi giorni fa. Orribile è la morte di Paola, ragazza di Caivano.
L’elenco, come una tristissima litania, potrebbe continuare a oltranza. La monotonia del male, purtroppo, rischia di assuefarci e questo non deve accadere.
Paola Gaglione è morta, cadendo dallo scooter sul quale viaggiava con Ciro, il giovane trans del quale era innamorata. L’atroce morte di Paola, l’immensa sofferenza di Ciro, l’angosciante sconforto delle famiglie di entrambi, meritano più attenzione e riflessione, e più sincera partecipazione al dolore.
Meritano, soprattutto, che venga rigettato ogni tentativo, dissimulato o palese, di strumentalizzare una tragedia dalle dimensioni immane. Domenica pomeriggio, invece, l’Arcigay di Napoli ha diffuso un comunicato inesatto fin dalle prime parole. Fin dal titolo: “Tragedia a Caivano. Maria Paola, 22 anni, perde la vita per l’odio transfobico del fratello”. Paola di anni non ne ha 22 ma 18, essendo nata il 12 luglio del 2002. Il fratello, Michele, viene chiamato Antonio. Piccoli, perdonabili, errori? Certo, ci mancherebbe. Ma errori che la dicono lunga sul pressappochismo dilagante, anche quando si parla di vita e di morte.
C’è finito in mezzo anche chi scrive questa amara e triste riflessione: «Ancora più esecrabili, poi, le parole che avrebbe pronunciato padre Patriciello: “Non credo volesse davvero uccidere la sorella, forse voleva darle una lezione, saranno le indagini a stabilirlo”. Una dichiarazione che, qualora fosse vera, alimenterebbe la cultura dell’intolleranza, per la quale è possibile “dare una lezione” a qualcuno solo perché non si condivide o non si accetta la sua storia d’amore». Frasi a effetto.
Le bugie non si dicono mai, fanno fare sempre brutta figura e anziché promuovere una battaglia di giustizia e di verità contribuiscono a creare confusione. Ma perché mai quell’associazione sente il bisogno di tirare il ballo il parroco del “Parco Verde” per supportare tesi precostituite? Domenica, ho detto e ripetuto, tra una Messa e l’altra, di essere stato a casa di Paola e di aver incontrato i genitori, due persone distrutte dal dolore. Un dolore atroce, lancinante, per una figlia morta e un figlio accusato di averla uccisa, speronando con la sua moto lo scooter sul quale viaggiava insieme a Ciro.
Sono abituato, per indole e vocazione a pesare le parole. Sempre, in privato e dall’Altare, quando scrivo e quando confesso. Ho detto e ripetuto che riportavo le parole dei genitori che non intendono, non ce la fanno, non hanno la forza di affrontare giornalisti e telecamere. Se quelle parole corrispondano o meno a verità, saranno le indagini a dirlo. Che fare allora? Accapigliarsi? Sparare a zero, dire, stradire e poi smentire? Aggiungere dolore a dolore, sofferenza a sofferenza, o piuttosto armarsi di umana carità e di pazienza, e aspettare che le indagini ci diano informazioni certe che non tengano conto di (pre)giudizi ideologici? Siamo, forse, garantisti a intermittenza, solo quando ci conviene? Accuse e ipotesi di aggravante sono già state formulate dagli inquirenti.
Un atteggiamento, sofferto e rispettoso di tutte le persone coinvolte, e della verità dei fatti in accertamento, perché mai «alimenterebbe la cultura dell’intolleranza?». Michele deve essere giudicato per quello che ha fatto. E grazie a Dio, in Italia, abbiamo chi si addossa questo compito.
Ho parlato a lungo con i genitori di Paola. Ho riportato le loro parole, non ho detto che le condivido tutte. Mi sono calato in questo dramma, da prete e da parroco che conosce tutte le persone di cui si parla. Il papà e la mamma di Paola hanno ammesso di avere avuto difficoltà ad accettare la scelta della figlia di stare con Ciro; ed erano preoccupati, perché, appena maggiorenne, Paola era andata via di casa con Ciro, senza avere un tetto stabile sotto cui abitare, senza che nessuno dei due avesse un lavoro che permettesse loro di vivere onestamente, e perché Paola, andandosene, aveva abbandonato la possibilità di continuare a studiare per diventare estetista. Preoccupazioni, queste, comuni alla maggior parte dei genitori italiani.
Al Parco Verde, in Caivano, la disoccupazione è alle stelle, ma la cosa non sembra preoccupare troppo. L’unica industria sempre più fiorente è lo spaccio della droga, tutti lo sanno, tutti lo dicono, tutti lo scrivono, tanti – anche insospettabili – vengono a comprarla e a usarla, lasciando sul terreno le tristi e sozze tracce del loro passaggio, ma pochi se ne fanno davvero carico.
Quella mamma e quel papà erano seriamente preoccupati che Paola e Ciro non avessero un minimo d’ indipendenza economica. E sulla tragedia accaduta mi hanno assicurato che Michele non intendeva speronare il motorino su cui viaggiavano Paola e Ciro, causandone la caduta che è costata la vita alla ragazza. Se questa sia la verità non lo so, e come me, nemmeno Arcigay lo sa, unica cosa da fare, quindi, al di là degli slogan, è attendere, senza fare e farci ulteriormente male, la parola certa che ci viene dalle indagini. Questa sarebbe “cultura dell’intolleranza”?
La realtà è che dobbiamo farci forza e prepararci a celebrare il funerale di Paola, l’ultima cosa che avrei voluto fare. Un’altra bara bianca sarà deposta ai piedi dell’Altare. Ennesima bara bianca che mi strazia il cuore, mi strozza la voce in gola e m’impedisce di parlare. Ma occorre farsi forza e badare a chi sta soffrendo per questa morte assurda. Occorre tentare di dare un pizzico di speranza ai giovani; pesare le parole sapendo che nulla mi sarà perdonato se dovessi pronunciarne qualcuna che a qualcuno non piace. Non so se ci riuscirò, so solo che questa celebrazione sarà tra le più difficili del mio sacerdozio. Ma questa è la mia vocazione, rimanere accanto e confortare coloro che soffrono. E pregare il Signore della vita perché ci doni la grazia di rinunciare a ogni forma di violenza, di menzogna, di egoismo.
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