Radici: restiamo innamorati della Terra che ci ha visti nascere
Mercoledì 21 aprile 1937. Stefania Liguori, giovane, bella, sorridente, radiosa, pelle scura, capelli nerissimi, vestita di bianco, con un fascio di fiori in mano, attorniata da parenti e amiche, a piedi, lentamente, da via Guglielmo Marconi, raggiunge la parrocchia di San Maurizio Martire in Frattaminore. I vicini, felici, chiassosi, intriganti, le fanno corona, l’abbracciano, le augurano una buona sorte, le baciano le guance, le lanciano confetti e petali di fiori, foglie di limoni, di menta e piccoli pezzi di sottilissima carta colorata.
Ad attenderla, in chiesa, c’è il fidanzato, Raffaele Patriciello, un giovanotto di Afragola, alto, forte, rossiccio, povero, analfabeta, sicuro di sè. A unirli in matrimonio è il parroco don Gennaro Martinelli. Gli sposi, come tanti altri italiani, non hanno scelto quella data a caso, ma per un calcolo preciso: ricevere il premio di nuzialità – 500 lire – voluto da Benito Mussolini. Nella stessa mattinata, dopo la cerimonia, la mamma della sposa, Chiarastella Crispino, le sorelle, Maria e Consiglia, il fratello Simeone e altri parenti, correndo attraverso il viottolo di campagna che da via Giovanni Liguori – allora via dell’Aia – porta alle “Murelle” di Crispano, raggiungeranno la parrocchia di San Gregorio Magno, dove anche Domenico, il fratello di Stefania – zio Ninnillo – si unisce in matrimonio con Consiglia Capasso, in quella stessa data per lo stesso motivo.
C’è grande festa nei nostri paesi quel mercoledì 21 aprile del 1937. Solo nella nostra parrocchia, don Gennaro Martinelli, celebrerà ben cinque matrimoni. Nelle stesse ore, nel piccolo borgo di Crispano, il parroco, don Saverio Capasso, benedice tre coppie di novelli sposi. Stefania portava il nome di sua nonna, Stefana Orefice, ma essendo nata il 13 giugno, da subito in famiglia fu chiamata Antonietta.
Era fidanzata con Francesco, suo coetaneo di Grumo Nevano, quando, per caso, incontrò uno dei due fratelli Patriciello di Afragola. Fu amore travolgente a prima vista. Un amore che le diede la forza e il coraggio – siamo negli anni 30 – di porre fine alla vecchia relazione e fidanzarsi con “Rafele o Fraulese”. Il fratello di Raffaele si chiamava Francesco, detto, naturalmente, Ciccio. Anche Ciccio a Frattaminore trovò l’anima gemella: Marianna Parolisi, “Mariannina a bidella”. La loro unione, purtroppo, durò solo pochi mesi. Partito per la guerra, zio Ciccio, infatti, morirà in Grecia solo pochi giorni dopo avervi messo piede. Farà ritorno a Frattaminore, alla fine degli anni 50, in una minuscola cassetta di zinco. Da zio Ciccio e zia Mariannina nacque Francesca Patriciello, che sposerà il professore Vittorio Abbundo. Papà fu più fortunato di suo fratello, dalla guerra tornò vivo dopo anni di sofferenze, disagi, prigionia. Quando partì per la ex Jugoslavia, Gelsomina, la sua prima figlia, aveva un anno appena. La rivedrà, al cimitero, in una piccola bara bianca, prima di essere sepolta. La mortalità infantile durante la guerra era molto elevata.
Dopo la morte di Gelsomina, ai miei genitori, nacquero Francesco, Simeone, Giovanni, Biagio ed io, più un altro fratellino morto in tenerissima età che non ho mai conosciuto. Agli inizi degli anni 50, papà per venire incontro alle necessità della famiglia, partì per la Sardegna, portando con sé solo i due figli più grandicelli, Francesco e Simeone. Nel 1957, dopo la morte della nonna Chiarastella, anche la mamma e noi figli più piccoli ci imbarcammo sul piroscafo che da Napoli ci portò a Cagliari. Trovammo casa ad Abbasanta ai confini con l’ Ogliastra. Gli anni trascorsi ad Abbasanta rimarranno impressi per sempre nei nostri cuori.
Papà, lavoratore instancabile, testardo, uomo di parola, ma poco incline alla comprensione, al compromesso, al perdono, riusciva a non farci mancare niente; la mamma, invece, divorata dalla nostalgia, soffriva tantissimo in quella sorte di esilio. “ Raffaele, non farmi morire qua … portami via… ritorniamo tra la nostra gente… ritorniamo al nostro paese …” ripetava a suo marito. Così decisero di lasciare la Sardegna e facemmo ritorno a Frattaminore. Con i pochi risparmi messi da parte mastro Antonio Franzese, riuscì, alla buona, a costruire per noi una casetta in via Gabriele Parolisi. Minuscola, cara, preziosa casa nella quale tuttora vivo.
A Frattaminore papà faceva il fruttivendolo. Nella sua attività coinvolgeva tutti noi. Alla fine dell’ inverno si portava nelle campagne dei paesi vicini – Gricignano, Cesa, Villa Literno, Carinaro, Casal di Principe – e prendeva in affitto interi frutteti di pesche o campi di meloni gialli. Come facesse a sapere quanti quintali di frutta quelle piante potessero poi produrre, rimane, ancora oggi, per me, un mistero. Diventavamo così “proprietari “ del frutteto fino alla fine della raccolta, in autunno, quando le chiavi del podere venivano riconsegnato al legittimo proprietario. In quei frutteti c’era lavoro per tutti, grandi e piccoli, maschi e femmine. Papà, che, come ho detto, era analfabeta, riusciva a capire l’importanza dello studio e ci incitava a studiare, ma proprio non gli entrava in testa il fatto che per studiare occorrono tempo, concentrazione, libri, riposo, serenità. No, pretendeva che prima si andasse con lui al mercato, alle quattro del mattino, poi, tornati a casa, in fretta, occorreva lavarsi, cambiarsi, prendere la cartella e correre a scuola.
Grazie a Dio, almeno per me, anche questa esperienza, alla fine, si è rivelata un bene. Quel poco che ho imparato non l’ho rubato a nessuno, non mi è stato regalato, tutto è stato sudato e oggi riesco a comprendere meglio il valore delle piccole cose. A Frattaminore iniziai la scuola elementare, a pochi passi da casa; la “mia” scuola che profumava ancora di nuovo, era stata, infatti, appena costruita. Purtroppo la “mia”, la “nostra” scuola, la scuola nella quale migliaia di frattaminoresi hanno imparato a leggere e a scrivere e che custodiva i loro ricordi più belli, non esiste più, è stata demolita qualche anno fa. Fu un vero peccato. Senza voler entrare nelle scelte e nelle responsabilità politiche, credo, tuttavia, che sia stato un grave errore. Andava riparata non demolita.
A Frattaminore, in quegli anni, segretario comunale era il Commendatore Davide Insogna, classe 1907, persona dotta, originario di Melizzano, un paesino in provincia di Benevento, aveva sposato Lucia Camerlingo, di Giugliano. La coppia aveva due figli, Giuseppe e Sofia. Tra loro e la mia famiglia, appena tornata dalla Sardegna, nacque un’ amicizia bella che dura fino ad oggi. Sofia mi ha insegnato a leggere e a scrivere; suo marito, il dottor Antonio Martone, di Portico di Caserta, è stato il mio padrino di cresima. A loro devo tanto. Come la maggior parte dei miei amici, da bambino non ho mai avuto un giocattolo, ma mai ne ho sentito la necessità. In quegli anni, a noi ragazzi, bastava poco per divertirci.
Passavamo il tempo libero per la strada, in piazza, in campagna. Giocavamo, inventavamo, facevamo guai, scoprivavamo il mondo, ci stancavamo, ci sporcavamo e, naturalmente, a casa, le prendavamo. Ma anche le sgridate e le botte erano messe in conto. Davanti alla “Vesuviogas” nei pressi del cimitero, passava l’alveo a cielo aperto delle fogne che da Frattamaggiore andava verso Succivo. Era un luogo pericoloso, maleodorante. Si poteva scivolare, annegare, farsi male. I nostri genitori ci dicevano di non andarci, ma noi, imperterriti, facevamo orecchie da mercanti e ci spingevamo fino a immergere i piedi in quelle acque putride. Come abbiamo fatto a non ammalarci rimane, per me, un altro mistero.
In campagna andavamo a passeggiare, litigare, raccogliere i funghi dagli alti alberi di pioppo che servivano per legarvi le viti. Naturalmente ai contadini non faceva piacere la nostra presenza, primo perché i funghi venivano sottratti a loro, e poi perché nell’arrampicarci sugli alberi, facevamo enormi danni alle viti. Per questo motivo cercavamo di organizzarci bene: c’era chi si arrampicava e chi faceva la guardia. Le noci, invece, le facevamo cadere dagli alberi a colpi di pietre. Le nostre mani si coloravano di nero per intere settimane, perché per eliminare il verde che ne ricopre il guscio, occorreva strofinarle a terra per molto tempo, e, con le mani nere, mentire a casa era impossibile.
Impressi negli occhi della mia mente e del mio cuore, sono rimasti i giorni della vendemmia. Un profumo di uva, di mosto, di vino, di terra, di umido, di fatica, di gioia, si spandeva per via Gugliemo Marconi , via Liguori, piazza Crispi e per le campagne intorno. Uno spettacolo unico. Da ragazzi riuscivamo anche a guadagnarci qualcosa aiutando i contadini a infilare il tabacco. Per ogni serto, la mamma di Gennarino, ci dava dieci lire. Attraverso un grosso ago, si inserivano le foglie di tabacco che poi venivano messe ad essiccare in soffitta o nelle aie. Anche il profumo del tabacco, come quello della canapa, è rimasto impresso nella nostra memoria olfattiva.
Dei miei tantissimi amici, cui va la mia perenne gratitudine, mi piace ricordarne due che sono stati per me più importanti di quanto mai avessero potuto pensare: Maurizio Crispino, mio dirimpettaio, detto Miziotto, al quale ho dovuto, purtroppo, celebrare il funerale ad appena 55 anni, e Raffaele Parolisi, figlio di mia cigina Felinella, detto O’ Fedaino, anch’egli, come noi e più di noi, innamorato della terra che ci ha visti nascere. Ogni albero ha le sue radici.
Padre Maurizio Patriciello.