editoriali

Tre, anzi quattro, pensieri maturati al tempo del Covid

Virus e vita – Tre pensieri, anzi quattro mi hanno preso la mente durante la clausura imposta dal Covid-19. Uno è la vita, due è la morte, tre il dolore. Il quarto non so bene come chiamare, è una lama di luce o un barlume tra inizio e fine, o forse tra fine e inizio. Un’attesa, ecco, qualcosa che somiglia a una parola grande come la speranza.

Uno, la vita. Mi sono chiesto se il virus è cosa viva. Un filamento di Rna dentro una capside, così piccolo che per vederlo bisogna bombardarlo con gli elettroni, e che non può stare se non “dentro” una cellula altrui che lui saccheggia. Sussiste perché invade e preda, e quando uccide muore. E’ vita questo micidiale bio-nulla? Un’ameba fatta di una sola cellula, al confronto, è un universo. E un corpo umano, 100mila miliardi di cellule, ha una bellezza incomparabile. Un vertice di vita. Perché il virus lo uccide? Se abbraccio in solo orizzonte le infinite iridescenze della vita che ferve nel cosmo, unificando il mistero dell’essere, trovo che nella vita “umana” il cosmo raggiunge un respiro, un’autocoscienza, un pensiero, una libertà. Il fremito che percorre la struttura della materia, la fisicità, il chimismo, si trascende nell’incomprensibile dimensione dello spirito. L’uomo non è solo un bio-uomo, è un soffio di Dio.

Due, la morte. Da noi, più 33mila uccisi, nel periodo di clausura. Nel mondo, oltre 400mila i morti contati; poi, chissà quanti altri fuori conto. Altro mistero questa fragilità della vita, se è un tempuscolo chiuso nella nicchia terrestre, su un pianeta che è a sua volta un pulviscolo fra sterminati silenzi degli astri. Un miracolo precario, un gioiello donato di cui ora il virus ci avverte che non abbiamo padronanza totale. La fronte un po’ calda, la tosse, l’affanno… la paura. La paura che fra chi vive e chi muore nella medesima lotta, tocchi a me il dado nero. Ma i trionfi della morte nel mondo sono anche manufatti nostri, armi guerre e oppressione dei poveri. E c’è anche la pandemia abortiva, morte data ai più poveri tra i poveri. Qualcuno ne ha chiesto, nel tempo del Covid-19, persino la facilitazione domiciliare.

Tre, il dolore. Le bare allineate e portate via dai camion militari, le morti senza presenza di cari, i contatti infranti, l’ansia claustrale. Un’emozione d’impotenza, di sgretolamento, di pericolo ostile. La morte è dolore; ma se il dolore di chi muore finisce, il dolore di chi resta continua. In quei giorni mi è giunta notizia di una lettera inviata da una giovane donna a un Centro di aiuto alla vita, dopo l’aborto. Un dolore da piangere a sentirlo, penetrato nelle fibre stesse, nelle cellule della stessa identità vitale. Resta da salvare, da guarire quanto resta. Resta un dolore che può divenire forza nell’aiuto a prevenire altre sventure.

Quattro, il pensiero che non so dire, sospeso in un’attesa. Forse arriverà il vaccino, forse la peste finirà da sé. Forse cesseranno anche le guerre, verrà la pace. Forse i morti di fame, gli sfruttati, i migranti respinti, gli schiavi, i poveri, gli scarti del mondo riceveranno un po’ d’amore, e avranno vita invece che morte. Forse non si uccideranno più i figli nel grembo, e vincerà l’aiuto. Utopia? Se crollate la testa siete già un poco morti. E’ vero che l’attesa sta nel tempo dell’incertezza, ma c’è un “attender certo” che si chiama speranza. La virtù bambina, la sorella piccola, scrisse Péguy.

La speranza di cui oggi soffriamo carestia, ha detto il papa Francesco nell’omelia di Pentecoste. La speranza che ci fa certi di un abbraccio di vita che non muore più, e che è l’amore di Dio.

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