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Anche noi de IlCentuplo seguiamo “virtute e conoscenza”

Uno dei canti più famosi della Divina Commedia è il XXVI dell’Inferno: Ulisse. Una delle terzine più famose di questo canto è: “Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a vivere come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza” (v. 118-120). Ci tornerò sopra, ma adesso voglio concentrarmi su un aspetto meno noto della risposta di Ulisse.

Ai versi 100-101 Ulisse afferma di essere ripartito, tempo dopo il famoso ritorno da Troia, con una “compagna / picciola”, cioè una compagnia formata da quei pochi compagni che non lo avevano abbandonato per starsene a casa tranquilli (o che lui stesso non aveva già condotto a morte nel precedente vagabondaggio). Ai versi 114-115 si legge che Ulisse ha cercato di convincere i suoi uomini a procedere con la nuova avventura esortandoli a non sprecare la “tanto picciola vigilia / de’ vostri sensi, ch’è del rimanente”, cioè il poco tempo che restava loro da vivere. Infine, al verso 122, Ulisse afferma di aver ottenuto il risultato che voleva – convincere i suoi uomini a seguirlo – con una “orazion picciola”.

Pare strano che nelle parole di Ulisse, che ricoprono nel loro complesso 53 versi (circa 1/3 del canto), ricorra ben 3 volte questo aggettivo: piccolo. Tanto più che Ulisse, condannato ad essere avvolto da fiamme eterne nello stesso fuoco che brucia il suo compagno Diomede, ci viene presentato come il “maggior corno” (v 85), cioè la lingua più alta, di questa fiamma. Ulisse è certamente il “maggior corno” perché la sua fama è superiore a quella di Diomede, ma anche perché lo è il suo ingegno e proprio questo è interessante. Ulisse, infatti, sconta la propria pena nel girone dei “consiglieri di frode”, per essere riuscito a portare Achille a Troia con l’inganno e per lo stratagemma del famoso cavallo, oltre che per una miriade di altri piccole bugie, quindi è logico che il suo ingegno venga in qualche modo sottolineato. Perché, allora, insistere tanto sulla piccolezza?

Tutto sommato la risposta è semplice. Con tutta la sua furbizia Ulisse non avrebbe mai potuto arrivare alla sapienza divina, infatti egli e i suoi compagni muoiono per un atto di quella che gli antichi chiamavano ùbris, cioè tracotanza: durante il loro viaggio verso l’ignoto, intravedono le pendici del monte del Purgatorio e Dio suscita un vortice che trascina negli abissi la loro nave perché nessun essere vivente – per di più pagano – avrebbe mai potuto vedere uno dei misteri di Dio, uno dei Regni dell’Aldilà. Sciogliendo la metafora, possiamo affermare che le possibilità dell’Uomo, rappresentato da Ulisse, sono piccole rispetto alla grandezza di Dio e incaponirsi nel comprendere le Sue ragioni non può che portare l’Uomo a perdersi. In questo senso l’episodio di Ulisse è una sorta di rivisitazione pagana del Peccato Originale.

Questo, apparentemente, non è molto confortante, ma adesso possiamo tornare alle parole iniziali del discorso di Ulisse, a quel “virtute e conoscenza” che ha assillato generazioni di studenti. Nell’ottica di Ulisse, forte della sua tracotanza, questa coppia serviva ad affermare che gli uomini devono essere curiosi fino a sfidare i Misteri del divino, ma Dante compone per lui un dialogo in cui questa tracotanza si unisce per 3 volte all’aggettivo piccolo.

Dante, quindi, ci dice innanzitutto che – ovviamente – l’Uomo non è nato per essere un bruto e che è la natura stessa dell’Uomo (voluto così da Dio) a spingerlo ad indagare. Ci mancherebbe! Nella tradizione cristiana ci sono fior fior di filosofi, da Tommaso a Pascal, che hanno fatto delle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio il loro atto di fede e che, in genere, usano nei loro ragionamenti un rigore che raramente è stato raggiunto da chi voleva dimostrare il contrario.

Anche Galileo, tre secoli dopo la Divina Commedia, dirà le stesse cose: la scienza è stata data da Dio agli uomini proprio perché, indagando il Creato, capissero la grandezza del Creatore. Dante, mostrandoci le falle del discorso egocentrico di Ulisse, ci mostra perciò il grande dono di Dio agli uomini: la ragione. La “scienza” è infatti uno dei Doni dello Spirito. L’Uomo è razionale o non è Uomo. Il Cristiano ha la “scienza” o non è Cristiano. La differenza tra Ulisse e l’Uomo di fede è che il secondo accetta di porre dei limiti alla conoscenza: non desidera conoscere tutti i piani di Dio, rispetta il fatto che la sapienza umana possa trovarsi davanti a dei Misteri che sono per lei insondabili.

Non per questo l’Uomo ne esce sminuito (piccolo, come tutto ciò che riguarda il “maggior corno” di Ulisse), anzi! Ne esce consapevole di poter conoscere e capire quasi tutto ciò che Dio ha creato per lui, poiché, come si legge nella Genesi, deve essere il custode del Creato e non si custodisce con amore qualcosa, se non la si conosce. Ne esce consapevole di poter essere grande proprio nel momento in cui accetta di essere piccolo.

Ecco, quindi, che il discorso di Ulisse diventa allo stesso tempo una presa in giro dell’ego di Ulisse e una lode dell’ingegno umano così come lo ha creato Dio. Mi è venuto spontaneo associare questo passo al compleanno de Il Centuplo perché mi sembra che in questo progetto si concretizzi questa associazione tra grande e piccolo: riconoscere la grandezza delle piccole cose e essere consapevoli che, unendo le nostre personali piccolezze, possiamo arrivare a gioie (e conoscenze) più grandi.

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