cultura

La promessa – un racconto di Benedetta Bindi


Viviamo tutti con l’obiettivo di essere felici; le nostre vite sono diverse, eppure uguali (Anna Frank)

Ieri sono andato con mio padre al cimitero. Ci andiamo ogni anno, il giorno del compleanno di mia nonna. Lei è seppellita in una piccola cappella di marmo rosa,  insieme ai suoi famigliari.

Mio nonno invece  è ancora vivo, ma non sta bene, questo è il primo anno che non è potuto venire con noi.

Da che ho ricordo, ogni volta che andiamo al cimitero il tempo è brutto, e potrebbe sembrare una strana coincidenza, se non fosse che è gennaio, ed è piuttosto normale che piova spesso, o che nevichi dalle mie parti.  

Al cimitero papà mi porta a fare il giro anche di altre tombe. Negli anni il percorso si è allungato: “è inevitabile, gli anni passano” mi ha detto.

Lui mi racconta aneddoti di ciascuno di loro, dice che il ricordo li rende vivi. 

A me diverte ascoltarlo, è bravissimo a descrivere le persone, le loro storie. 

Ieri per la prima volta  siamo andati  alla tomba della sua professoressa di italiano, è morta di recente a novantanove anni. 

Ho visto che mentre le metteva i fiori nel vaso, gli è uscita  una lacrima, poi si è girato verso di me e mi ha detto: “questa maledetta allergia alla polvere”, crede che io sia ancora un bambino, che si beve ogni cosa che dice. Poi è rimasto in silenzio a guardare la foto che  ritraeva una donna bella e sorridente, con il rossetto e i capelli raccolti. Si notava un pezzetto di camicetta bianca, con dei pallini verdi, metteva allegria. Ho pensato che doveva essere stata una persona solare, di quelle che ti mettono il  buon umore solo a guardarle, come Giovanni, il mio migliore amico. Poi papà ha detto: “devo a lei quello che sono diventato, mi ha dato delle ottime basi, mi ha insegnato a  immaginare, a scrivere  poesie, ad ascoltare, ci diceva che i nostri sogni dovevano divorare la nostra vita, e non il contrario. Il mio primo soggetto pagato, l’ho fatto leggere a lei e alla nonna”

Mio padre fa lo sceneggiatore, crea storie per i film, dicono sia molto bravo, sono fiero di lui.

Io invece amo i numeri, e le materie scientifiche, e non credo proprio che  farò il suo mestiere. Vorrei fare il biologo, o il veterinario. Ma faccio la  seconda media, e  chissà quante volte cambierò idea, spero solo di fare qualcosa che mi renda felice, come è accaduto a lui e alla mamma. Lei ha un piccolo negozio di ceramiche con un’amica, vendono le cose da loro create : tazzine, porta vasi, posaceneri. Mio padre una sera a cena ha detto che il lavoro di mamma è un hobby, non un vero mestiere, perché ci guadagna solo i soldi per pagare l’affitto, e raramente qualcosa in più. Che forse era meglio se insegnava storia dell’arte, come faceva prima che io nascessi. Lei gli ha risposto che da quando ha il negozio non è mai triste, o nervosa, mentre prima a scuola gli venivano sempre i bruciori di stomaco. Questa cosa qui dei bruciori la ripete spesso mia madre: “Carlo non urlare, mi vengono i bruciori di stomaco”. Io non li ho mai avuti ma devono essere particolarmente fastidiosi. 

Tornando al lavoro mi rattrista immaginarmi in un ufficio, con la faccia spenta, e nell’attesa che finisca la giornata per tornare a casa, come una volta ho visto ad un  funzionario delle poste quando mio padre pagava una multa. Nei prossimi anni m’impegnerò a capire cosa mi piace davvero fare, come diceva di fare la professoressa di italiano di mio padre. Dopo la sua tomba, siamo passati dallo zio di mio padre e  dalla moglie Giovanna, che per un problema di posti riposano separati, poi da Paola una sua  amica, da Guido un suo collega,  che si è schiantato con la moto una notte proprio vicino alla mia scuola. Poi, penultima tappa, dai  nonni di mio padre, ed infine da nonna Giulia. 

Lei la lascia per ultima, ed è lì che sostiamo più tempo, e portiamo il mazzo di fiori più grande. 

Il cimitero non è distante da casa, venti minuti  in auto. Io ci andrei anche più volte l’anno, ma papà  ha fatto una promessa alla nonna, mi ha detto. Uno degli ultimi giorni della sua vita, lei gli ha detto: “Francesco, quando non ci sarò più  lascia che i morti seppelliscano i morti, come diceva Matteo nel vangelo, non venirmi a trovare più di una volta l’anno, trascorri il tuo tempo tra i vivi”. 

Io vorrei venire qui quando ho voglia di comunicarle qualcosa: tipo un bel voto, o quando ho ricevuto un bacio da Ginevra ad una festa e mi pareva di avere i razzi sotto i piedi. 

Al cimitero  ci dovrebbero mettere un bar, e anche della musica di sottofondo. Io credo in un altrove senza  buio e  sofferenza, Di quella ce n’è molta di più sulla terra. Allora perché non farsi un bicchiere e due patatine, quando si va a trovare qualcuno che non c’è più? Perché non ricordarlo  con allegria? 

Ora stanno costruendo una pista ciclabile che da lì, condurrà in città. Il prossimo anno se è finita, verrò qui da solo con la mia mountainbike.

Il  cimitero  è anche  pieno di alberi: pini, tassi, che sopportano sferzate di lutto senza piegarsi mai. Ho sempre  ammirato le loro radici,  che si estendono  in questo spazio sacro. Fino all’anno scorso mi portavo anche un sacchetto per raccogliere i pinoli, ora sono grande e non ho più voglia di farlo. 

Mia nonna mi raccontava sempre una storia, a me che ero il nipote preferito, e l’unico che le diceva che non poteva immaginare un mondo senza di lei.  

Un giorno Federico, un signore, perse sua moglie, che amava più di ogni altra cosa, e dopo il funerale rimase sulla sua tomba. Ci rimase così a lungo che ci si addormentò. Il giorno dopo  gli amici e i parenti lo riportarono a casa, ma lui ogni giorno scappava e tornava al cimitero. Perse il lavoro, il suo corpo deperì, e perfino la sua voce che era bellissima, perché era  un cantante lirico, si trasformò in uno scricchiolio. I suoi indumenti appassirono,  e le dita dei piedi, avendo imparato a conoscere bene la terra sotto di loro, si allungarono fino a diventare radici. 

Quello in piedi, vicino alla tomba della moglie, non era più un uomo innamorato della sua donna, ma una figura dalla pelle crepata,  trasformata in albero. Il dolore, quando una persona cara muore, non deve durare troppo a lungo, caro mio. Se smettiamo di guardare il mondo, il bello che abbiamo intorno, e rifiutiamo l’affetto del prossimo, rischiamo di diventare un albero solitarioQuell’uomo tutto poteva continuare a cantare,  rifarsi una vita, invece è finito Come un vegetale. Non perderti  mai nel tuo dolore, io ho perso tante persone care, ma sono sempre andata avanti con coraggio e  la voglia di vivere. Perché la vita non finisce su questa terra, ci attende altro, io ne sono sicura. Quando non ci sarò più, non piangere, perché io sarò in cielo a ballare!!

Io le rispondevo sì,  e lei abbracciandomi mi diceva: “sei sempre stato un bambino forte, sono certo che manterrai la promessa”. 

Le sue parole tornano a trovarmi in vari momenti di necessità, fortificandomi, quando non mi sento proprio al cento per cento. 

Per questo anche l’altro giorno, quando ho messo dei fiori nel suo vaso, le ho mandato un bacio senza tristezza, mentre mio padre, invece sprofondava nella sua faccia afflitta. La solita che da anni  gli viene, quando guarda la lapide di sua madre.  

Ricordo ancora la mattina del dieci  gennaio di tre anni fa, quando lui  mi ha svegliato prestissimo, per dirmi  che lei era passata a miglior vita, mi sono sentito  come se non avessi più denti in bocca. 

Poi due giorni dopo, una  mattina, la neve è caduta  a fiocchi giganti, come non ho più visto nevicare . La strada,  i tetti delle case, erano coperti  di bianco. Io mi sono ricordato della promessa che avevo fatto alla nonna: ho asciugato le lacrime, sono corso in strada,  ho fatto una palla bella bianca,  e prima di tirarla ne ho morsa una parte anche per lei, e i denti hanno vibrato all’ unisono,  quando  ho visto  Giovanni che arrivava verso di me, e gli sono corso incontro.

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