Il coraggio di mettermi in gioco – un racconto di Benedetta Bindi
Mi chiamo Eleonora, sono un’ insegnante. La mia vita ?
Mattine che si sommano ad altre mattine, in un un liceo di Roma nord.
Faticoso?
Molto, ma tante sono anche le soddisfazioni insieme alle arrabbiature.
Oggi non c’era traffico, sono arrivata in anticipo a scuola, ne ho approfittato per fare due passi nel parco a fianco. Gli alberi adesso hanno tutte le foglie gialle, molte sono cadute per terra e hanno creato una sorta di tappeto. Ho fatto una foto!
Mi sentivo felice, amo l’autunno, ma contemporaneamente melanconica, mi mancavano i miei alunni della quinta B, quelli con i quali ho svolto un lavoro continuativo di quattro anni e mezzo. Credo di averlo fatto nel miglior modo possibile. Dei giorni ho litigato anche con mio marito, tanto loro mi assorbivano la mente. I primi tempi è stata dura, alcuni ragazzi erano molto difficili, nemmeno mi consideravano, e alcune alunne passavano più tempo al bagno che sul banco.
Ho usato una regola semplice per conquistarli: accendere in loro un desiderio. Quando una vita è ispirata da un’inclinazione diventa vita ricca, per questo volevo trovare insieme a loro, qualcosa per la quale provassero gioia a svegliarsi al mattino. Con alcuni ci sono riuscita. Due alunni erano ostili: Giulio e Marco, con dei volti che avevano perso il sorriso. Entrambi sospesi per cattiva condotta mesi prima che io arrivassi a sostituire una mia collega andata in maternità.
Erano impulsivi per una ragione: avevano difficoltà a tradurre il loro conflitto interiore. Ma le cose mutano fortunatamente, e loro negli anni si sono trasformati. Quando li ho salutati a luglio, avevano gli occhi lucidi, mi hanno anche abbracciato.
Marco quando l’ho conosciuto aveva problemi a casa perché i suoi stavano dietro solo al fratello maggiore, che come poteva si faceva di ogni tipo di pasticche. Giulio invece odiava il compagno della madre, mentre il padre si era trasferito a Milano per lavoro e trovava sempre una scusa per non tornare il week end. Entrambi i ragazzi si sentivano abbandonati. Quando sono riusciti a formulare con un discorso il loro malessere, le cose sono cambiate. Sono entrata nella loro vite, piano e con una grande dose di allegria.
Quando mi facevano battute del tipo: “prof, oggi preferirei andare ad un funerale, piuttosto che stare in classe ad ascoltarla!” Io allora rispondevo: ”dai usciamo a cercarne uno” poi magari collegavo ad una cassa il mio telefono, e mettevo una canzone. Gli dicevo di analizzare il testo poi si studiava la metrica. Ho adottato un programma diverso da quello canonico e spesso ne ho dovuto discutere con il consiglio d’istituto. Io insegno italiano, ad ognuno di loro ho regalato un bel diario, e gli ho detto che avrei dato un voto su questo. I miei alunni erano liberi di farci ciò che volevano. Chi ci ha scritto canzoni, chi disegni, chi frasi, chi le sue storie. Così sono riuscita a stabilire un vero contatto. Si sono piano, piano fidati di me. L’ansia del voto è sparita e hanno imparato ad accettare un’insufficienza se ben motivata.
Una collega un giorno mi ha detto, davanti ad altri docenti in sala professori: “Raffaella sarai felice tutti parlano di te ma non montarti la testa se i ragazzi in quattro anni sono tanto migliorati, accade. Tu non hai l’esperienza dei miei trent’anni da insegnante. Alla Preside hai detto che Marco Ciotti adesso la sera lavora in pizzeria, invece di fare a botte. Sono contenta. Nel tempo i ragazzi maturano, i maschi ci mettono sempre più tempo ma all’ultimo anno cambiano anche loro. Avere un diario non fa miracoli, nemmeno adottare un programma sperimentale, è la vita che ci cambia”.
Non le ho risposto.
Io ho messo tutta me stessa in questi miei primi anni d’insegnamento, mi sono messa in gioco senza calcoli, ma con la volontà di seguire non mettendomi davanti ma dietro di loro il loro cammino. Li ho indirizzati con discrezione, l’autorità severa non porta risultati secondo me. Questo non vuol dire portare me stessa allo sfinimento, come una volta mi ha rimproverato di farlo un collega. Ricordo ero a fine anno e mi disse: “Raffaella sei stata una matta a studiare sempre soluzioni per questi ventidue debosciati. Io adotto una tecnica, chi mi segue bene, chi non mi segue debito, stop. La vita è dura, la scuola non è una seduta dallo psicologo. Così ti sfinisci e loro non imparano il sacrificio”, anche a lui non ho risposto, non spreco la mia energia. Non si tratta di sfinirsi ma di essere totalmente presenti, e autentici.
Ho messo tutto il mio talento nella seconda B, era il primo anno che non ero più supplente ma di ruolo, mi pareva un miracolo. E ai miracoli bisogna essere riconoscenti. Ho visto crescere i miei ragazzi, e i messaggi e l’email che mi mandano per raccontarmi come va la loro vita nel mondo degli adulti, e per chiedermi consigli mi gratifica fino alle lacrime. Mia figlia Adriana è gelosa quando parlo dei miei alunni. Alcune volte ho sacrificato lo stare con lei per studiare delle lezioni, ma era necessario. Insegnare è la missione per la quale sono nata, poi ho trovato il modo di recuperare il tempo perduto con mia figlia, andiamo a lezioni di zumba insieme e ci divertiamo tanto. Io ho sempre creduto in Dio, anche se non sono un’attenta praticante come lo era mia madre, lei mi leggeva il Vangelo da piccola, per questo lo conosco bene, il passo della vedova povera, mi accompagna nel mio lavoro.
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». (Mc 12,38-44).
Lo tengo sempre a mente per capire se mi avvicino a lei, se mi dono davvero, se non è solo il superfluo di me stessa quello che offro ai miei alunni. Preferirei smettere di lavorare se accadesse, non avrebbe più senso per me insegnare. Alcuni miei colleghi sono poco empatici, e questo è un grande guaio, è anche vero però, che molti genitori non aiutano. Alcuni sono preoccupati di farsi amare dai propri figli e gli rimane più facile criticare il nostro operato che se stessi.
Io quando ero piccola facevo a me stessa un’altra domanda: “quanto mi amano mamma e papà?”, ora il discorso è invertito.
Questo comporta un cedimento nell’esercizio educativo, e poi c’è un narcisismo dei genitori, alcuni esigono dai loro figli la perfezione, vivono con angoscia i fallimenti, un quattro diventa un dramma, mi chiedono ti toglierlo se accade, un debito una tragedia. In realtà le cadute sono momenti formativi. Spesso sono i miei alunni più bravi sono quelli più terrorizzati dal voto! Poi ci sono i genitori che non vogliono essere disturbati, pensano che al liceo ormai i figli sono grandi! Ai colloqui parlo con nove, dieci al massimo di loro, in classi con una media di ventidue alunni. Così il rapporto è spesso e solo con i ragazzi.
Io ho un motto che ripeto ai miei alunni, sempre: “se siete capaci di amare, avete la possibilità di salvarvi”. Quando un mio alunno mi dice che si è innamorato di una materia, di uno sport, di suonare uno strumento, del suo cane, io sono felice. Quando mi chiedono se va bene anche innamorarsi di una persona io rispondo: “Certo! Purché sia la persona giusta e che ti rispetti! Approfittane per scriverle una canzone, una poesia”, e loro lo fanno, magari le correggiamo insieme.
“Il desiderio è il vostro dovere, mettetelo a frutto” gli dico.
Io non mi trattengo mai con loro, chiedo a Dio ogni giorno il coraggio di continuare a farlo, il coraggio di mettermi in gioco!