cultura

Il mio futuro come luci in riva al mare – un racconto di Benedetta Bindi

“La più terribile delle sensazioni è la sensazione di aver perso la speranza” Federico Garcìa Lorca

L’altro giorno era arrabbiata, avevo spalancato gli occhi sulla stanza e su di me. Provavo orrore, non ero più sicura di nulla, tutti quei libri che vedevo sulle mensole a cosa mi erano serviti? 

Volevo uscire per schiarirmi le idee. Ho aperto l’anta dell’armadio, ho preso un tubino nero e l’ho infilato in fretta,  poi ho indossato i miei stivaletti in cuoio, e messo sulle spalle lo zainetto rosso , poi  ho detto a mia madre che uscivo. Lei mi ha risposto  che sarebbero tornati a breve mio fratello e mio padre. La cena era quasi pronta, quindi dovevo rimanere a casa. Scura in volto mi si è avvicinata, mentre  mi sistemavo i capelli  allo specchio dell’ingresso, facendo finta di non ascoltarla. Ho distolto gli occhi dal mio volto riflesso, quando ho sentito il suo fiato sul collo. Mi sono girata e ho trovato davanti a me una maschera, aveva  l’espressione rigida, come fosse intagliata nel legno,  mi ha quasi urlato: “hai capito? Tu non vai da nessuna parte!

Ho pensato che questo  lo sapevo già, per questo  mi era salita un’angoscia tale che mi sentivo soffocare. Sono rimasta  muta con il suo sguardo fisso su di me, con domande che mi comparivano da ogni dove: “perchè si accanisce? cosa vuole? cosa sta di nuovo proiettando? anche lei ha dubbi? preferisce che adesso vada a lavorare?” 

Invece di urlare come l’uomo nel quadro di Much, mi sono diretta verso la porta dicendole: “Ceno fuori, non è un reato, Cristina mi aspetta, ha fatto la torta alle mele per me”. L’ho guardata e sono uscita. 

Ora  mia madre non può più tenermi con la sottrazione, non ha il potere di levarmi nulla, i tempi sono cambiati. Ricordo quando mi diceva: “non esci, non ti faccio la cena !” e tante altre cose… Ora sono maggiorenne.  

Io ho fatto tutto quello che lei desiderava. Ho studiato fino a svenire. Ho preso la maturità con il massimo dei voti. Eppure quel pomeriggio mi erano saliti dei dubbi in testa, che mangiavano via ogni speranza sul mio futuro. Tutta colpa di quell’incontro al mattino. 

Era caldo, avevo fatto una corsa al parco, la fontanella era rotta, ed io avevo bisogno di bere. Sono entrata in un locale dove alcuni turisti  mangiavano spaghetti a merenda, quando ho distolto lo sguardo  da loro  mi è comparsa davanti la professoressa Vernesi. Non l’ho mai digerita, troppo snob, troppo poco empatica. Lei ha detto subito: ”Antonella!”, poi mi ha sorriso come non aveva mai fatto, e  si è avvicinata. Ho creduto volesse farmi i complimenti, avevo fatto una  bella figura agli esami. Ma le cose sono andate diversamente, ha aperto la  bocca con le labbra coperte il rossetto, troppo gonfie e  finte, dovevo avvertire che c’era un tranello. Il suo infatti era il sorriso di Joker. Voleva masticarmi. 

Mi ha detto :”Martina ora andrai lavorare vero? Immagino ti darai da fare per aiutare i tuoi, tua madre mi ha detto che fatica ad andare avanti. Non c’è lavoro in Italia, quattro anni per laurearti, uno per fare il master all’estero, meglio cercare lavoro da subito, o ti ingegni non sei stupida magari crei una start-up”. Tra noi è calato un silenzio che mi ha ingoiato. Poco dopo però ho sentito l’impulso di reagire. Ho urtato con il gomito il suo cappuccino, che si è riversato sui suoi sandali dorati. Lei ha urlato: “Accidenti”, una parola che usava spesso in classe quando qualcuno sbagliava una congiunzione. Mentre si puliva con dei fazzolettini, ha ripreso con il suo tono arcigno: “Stai attenta, come sei sguai …”. Non ho sentito la fine della frase, sono scappata via.

Non avevo voglia nemmeno di chiamare la  zia. Io sono la figlia che avrebbe  voluto avere, la valorosa, la secchiona, quella che tiene testa ai professori alle interrogazioni. Quella che sapeva perché  chiedevo a lei di andare ai colloqui. Mi sono sempre vergognata dei miei: del loro italiano sgrammaticato, del loro  lamento continuo sulla vita sempre più cara, dei loro vestiti eccentrici, presi ai banchi di porta portese. Mia madre, dice mia zia che non era così un tempo. Lei ci si è appiccicata  a mio padre,  come le figurine all’album, prendendo anche il suo modo di parlare, di pensare, di lamentarsi, e di faticare poco. Dopo quasi vent’anni di matrimonio sono ancora sposati, questa è una cosa buona, però lei ha perso tutte le sue ambizioni e le ha proiettate su di me. Voleva fare la farmacista, invece maneggia  fili colorati al posto delle medicine. E’ diventata una specialista dell’uncinetto. 

 Si è sposata con il pancione. Mio padre l’ha conosciuto fuori da una discoteca. Lei era stanca di quel rumore assordante, del fumo, della calca, si era fatta trascinare dalle amiche a quella festa. Così era uscita dal locale con i piedi che gli dolevano, una fame mortale e aveva incontrato un angelo. Il loro incontro me l’ha raccontato mille volte, e sempre con gli occhi lucidi. All’epoca era molto bello mio padre, muscoloso, con una testa piena di  ricci biondi e due occhi celesti simili a due acque marine. Lei aveva attraversato la strada, aveva preso una bibita e un panino. Amore a prima vista, per i miei nonni una sciagura, mi ha detto la zia. Poco tempo dopo sono nata io. Mio padre non ha mai posseduto nulla oltre al suo furgoncino. Mia madre ha abbandonato l’università, anche se le mancavano dieci esami, ha fatto la mamma a tempo pieno, e  piccole cose a mano: borse, costumi, cuscini, collane,  che vendeva  ai mercatini. Spesso mi portava con lei la domenica, mi divertivo, poi al liceo ho smesso per via dello studio e lei ha trovato due negozi dove mettono le sue creazioni.  

Grazie all’eredità che ha ricevuto dai nonni, vivamo in un appartamento vicino al Vaticano, bello ma piccolo. Zia ha ereditato la Villetta di Anzio, dove ci ospita ad agosto. Quando io e papà abbiamo provato a dire a mia madre di vendere l’appartamento, per prenderne uno più ampio fuori dal centro, lei si è sempre opposta:”rimango dove sono cresciuta”. Così io divido la camera con mio fratello, ed è veramente pesante. Ma non ho mai mollato, mai una distrazione, anche se lui spesso giocava nella stanza, io traducevo dal greco, dal latino, senza perdere la concentrazione.   

Lei ha sempre preteso poco da lei stessa e moltissimo da me. Mio fratello ha quattordici anni, lui lo lascia libero, gioca a calcio e non apre mai un libro. Quando ci sono le partite all’Olimpico, ogni tanto  va a vendere panini con mio padre, in cambio  della paghetta. Francesco farà la sua stessa fine. Passerà le giornate a mettere salse sugli hot dog, con i capelli che puzzano di hamburger, e il grembiule bianco sopra la pancia. L’ho detto ai miei che lo stanno mandando verso il precipizio. Papà sostiene che sono simili, perché da piccolo anche lui a stare fermo al banco gli veniva l’orticaria: “Cecilia nu t’impuntà, tuo fratello ha altre qualità, nu te proccupà ha la testa”. Un tempo ci discutevo, ora lascio perdere. 

Uscita di casa  camminavo veloce, mi dicevo: “sei  cresciuta in una gabbia. Quando avevi fame ti hanno offerto da mangiare, quando avevi sete ti offrivano l’acqua, e quando eri stanca avevi un letto dove riposare. Ora però la gabbia si è spalancata e l’ignoto ti fà tremare le gambe”. Passeggiavo su lungo Tevere, quando il sole è tramontato insieme ai miei dubbi. Ho iniziato a corre, una fuga pazza per venti minuti. I piedi dolenti, le vesciche che sorgevano dallo sfregare del calzino con il cuoio degli stivaletti, non mi hanno  fermato. Le parole della professoressa mi avevano infettato, ma non ne ero morta, ero più forte del suo veleno.

Il disincanto travolge le speranze di chi non sa reagire.

Oggi  mi sono iscritta all’università, in biologia molecolare e cellulare. Mi ha dato i soldi la zia. A breve potrò  restituirglieli,  ho trovato un lavoro come baby sitter per tutta l’estate. 

Per crescere bisogna faticare, non verrai sempre abbeverato, accudito, io questa cosa qui me la ripeto da tempo. Il mio futuro lo vedo risplendere come quelle luci in riva al mare, in una notte buia, e non permetterò più a nessuno di spengermele. Grazie all’ambizione di mia madre, e ai panini di mio padre, fino qui sono arrivata, e ho gambe forti per la salita, e la fatica non mi spaventa.

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