25 anni… MADE BY ME
Ai tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte. (Sal 90,4)
Immagini…e piccole luci del cammino
In silenzio e in punta di piedi
La via che da Punín va verso Riobamba attraversa un’ampia vallata che progressivamente si apre in una pianura costellata di orti e piccoli appezzamenti ben coltivati. Le montagne, aride e aspre, sembrano farsi di lato e il canale di irrigazione, che qualche chilometro prima raccoglie una parte delle acque del fiume Chambo ed è la vita di tutti queste coltivazioni, si vede come una linea orizzontale che segue sinuosa i torrenti che incidono profondamente i fianchi di queste montagne. Ci vogliono quasi tre quarti d’ora per completare in autobus un percorso di pochi chilometri perché le fermate sono tante e ci vuol del tempo per sistemare un tutt’uno di cristiani, ortaggi e animali che poco a poco occupano tutto lo spazio disponibile dentro e anche sul tetto del veicolo. Stiamo trasportando il sangue verde del Chimborazo, una provincia che vive quasi esclusivamente di agricoltura e allevamento e che da sempre e a prezzi modici nutre i centri urbani e sviluppati del paese. La cattiva organizzazione commerciale e l’impossibilità di organizzare cooperative agricole mantiene i prezzi in costante fluttuazione e chi guadagna su questo non è mai il contadino.
Nel pomeriggio il bus ritorna a Punín con la stessa e identica parsimonia con la quale se ne era andato; ognuno porta con sé il frutto sempre povero del suo lavoro e il silenzio è rigoroso. Il volto indurito dei passeggeri è la viva immagine di una vita difficile ma allo stesso tempo conosciuta, accettata e forse anche amata. La musica della radio non si sa bene per chi suona e come l’autobus, la storia del Chimborazo avanza in silenzio e in punta di piedi.
(Riobamba, Agosto 1995)
L’avvinazzato di Santa Barbara
L’autobus appena partito frena bruscamente, la porta si apre e qualche secondo dopo appare un passeggero dell’ultima ora. Questi cammina con non poche difficoltà nel corridoio centrale e alla fine si lascia crollare proprio nel posto vuoto vicino a dove sono seduto io; piega la testa sul sedile anteriore e per qualche secondo rimane immobile mentre l’autobus riparte. Quando pensavo che si fosse addormentato lui si raddrizza, mi guarda dritto in faccia e mi saluta con un “hola padrecito” che mi lascia gelato. Con la cadenza e la voce propria di colui che aveva bevuto troppo comincia a raccontami che è della comunità di Santa Barbara dove tre giorni prima ero stato per la celebrazione mensile dell’eucaristia. “sai padre –mi dice- volevo ringraziarti per le cose che hai detto l’altra sera nella messa” e perché fosse chiaro che non si trattava di un semplice complimento mi fa un preciso riassunto di quello che avevo detto nell’omelia. Nemmeno io la ricordavo con tanta precisione.
– Grazie perché tutto quel che hai detto mi è servito e spero sia servito anche a tutti gli altri. Noi vogliamo che i missionari continuino ad accompagnarci come stanno già facendo. Siamo gente povera ma lavoriamo sodo e spero non si stanchino di noi anche se, come puoi vedere, a volte ci piace bere. Abbiamo bisogno di voi nella nostra cappella di Santa Barbara, abbiamo bisogno di persone che non si stanchino di dire parole che fanno bene”.
(Riobamba, maggio 1998)
La mia bambola ha un cuore di legno
Ciao Bebè. Oggi voglio raccontarti una storia ma non è una di quelle storie magiche di fate che, come si vede nei film, si raccontano ai bambini la sera per poi farli dormire contenti. No. Quella che ti voglio raccontare è una storia vera, fatta di capitoli belli ed altri un po’ tristi ed è la storia della mia vita.
In questa storia a un certo momento sei arrivato tu.
Se dovessi riassumere in un sostantivo la storia della mia vita questo sarebbe “solitudine”. La solitudine mi ha ferita, ha marcato la mia vita, ha determinato molte delle decisioni, a volte anche non giuste, che sono stata costretta a prendere. È possibile che per combattere la solitudine alla fine abbia messo al mondo te.
L’origine di questa storia risale a poco più di sette anni fa. Allora avevo da poco compiuto undici anni. Abitavo nella vereda del Tablazo con la mamma che si chiamava Julia e un padre che non era mio papà ma il quarto uomo con il quale mia mamma stava cercando di metter su famiglia. Nella povera casi in cui abitavamo era abbastanza nutrito il numero dei fratellini ed erano tutti maschi eccetto me. La nostra casa era fatta da quattro pali infissi nel terreno, un tetto di zinco e le pareti erano di quella plastica nera che si usa per coprire le serre. Ad ogni modo in quella casa così povera eravamo contenti, si lavorava la terra e vivevamo di quello che la terra produceva e potevamo vendere al mercato… tutto si ruppe quando mia mamma, la tua nonna Bebè, si ammalò e morì. Lei era il bene più prezioso che avevo.
Se tu mi potessi vedere da fuori, come mi vedono tutti, e non dal di dentro come mi vedi solo tu, potresti forse avere l’impressione che tua mamma è davvero poca cosa: piccola di statura, esile e con tratti ancora infantili nel corpo, piccole le mani, debole il tono della voce, sfuggevole lo sguardo. Non sopporto le persone che gridano e quando mi rimproverano -in varie occasioni non sono mancate ragioni di peso per rimproverarmi- sono solo capace di starmene zitta e di fuggire, ma non puoi nemmeno immaginare che duro sia starsene zitti quando dentro hai una voce muta che vorrebbe gridare tutto il tuo dolore e la tua rabbia, né puoi immaginare che duro sia voler scappare senza nemmeno sapere che strada prendere.
Quando mi guardo allo specchio mi sembra di vedere in carne ed ossa a la mia bambola Berta, l’unica che ho avuto in tutta la mia infanzia. L’avevo trovata un giorno abbandonata in un campo, e le mancavano un braccio e una gamba, e poi la testa era quasi completamente separata dal Corpo. Aveva dei bellissimi occhi azzurri ma uno di loro era sempre abbassato. Il suo volto era splendido solo quando, guardandola in faccia, si sosteneva aperto con un dito l’occhio spento. Dovetti lavorare non poco per restituirle la figura umana. Con un pezzo di legno le diedi una colonna vertebrale che sosteneva la testa dritta anche in mezzo alle peggiori intemperie; con altri due legnetti rimpiazzai li braccio e la gamba che mancavano.
Oggi, Bebè, sono ancora una volta sola, come ho sperimentato tante altre volte nella mia vita, in queste montagne prossime al massiccio innevato del Huila e vivo un po’ reclusa nella casa dell’unico zio ancora disposto a ricevermi. Questi monti, fra i quali sono nata, l’aria fresca e serena, il silenzio che mi circonda e i raggi del sole che filtrano sotto le nubi nere e cariche di pioggia che appesantiscono l’orizzonte mi danno un senso di tranquillità e di pace. Berta, la mia bambola, aveva un cuore di legno e questo stesso cuore ce l’ho io piantato in questo petto e dietro a queste tette che un giorno, spero, potranno allattarti. Quando di notte mi accorgo che ti sistemi nel mio ventre e che la tua sola presenza accarezza i miei sogni e gli incubi che mi spaventano scopro che ti voglio bene e che non posso amare te se non sono prima capace di amare me stessa. Non ho perso la speranza di cambiare un giorno questo mio cuore di legno con un cuore di carne che mi faccia capace di raggomitolarmi vicino a te, Bebè, nei momenti di oscurità e di freddo. Sono stanca di graffiare ed elemosinare affetto. Voglio imparare ad amare e donare. Voglio imparare a vincere la paura e la solitudine per poterti dare, come ti meriti, quello che non ho mai potuto avere, o non sono mai stata capace di difendere.
Te voglio bene Bebè. Lumy, la tua mamma.
(Toribío, noviembre 2011)
Una storia di Natale
Marco Antonio Torres di professione fa il calzolaio. È uno di quelli di una volta: pochi strumenti, un martello, un po’ di chiodi, colla. Un cartello scritto a mano sulla porta della sua “choza” diceva della sua modesta professione o, forse più che professione, della sua particolare strategia per dar qualcosa da mangiare ai sui figli che ha cresciuto da solo dal momento che la moglie da un po’ di anni non abita più con lui.
Marco Antonio abita, o meglio abitava, sulla strada che da Toribío conduce a Tacueyó; la sua è una modesta casetta non lontano dal ponte che attraversa il fiume Isabelilla, che scorre prossimo al centro di Toribío. Abitava e lavorava lì fino allo scorso mese di febbraio quando, sistemando i tubi che portavano l’acqua a casa sua e che le piogge recenti avevano in parte scoperto… incappò in qualcosa che era forme meglio non trovare: una bomba. Si trovava sepolta nelle prossimità del ciglio della strada e a non più di 20 metri da casa sua. Sarebbe stata innescata con un impulso elettrico; un cavo era stato accuratamente occultato e portava lontano, fino a un punto da cui sarebbe stata detonata probabilmente al passaggio dei poliziotti o dei membri dell’esercito che periodicamente pattugliano lungo quella strada. Spaventato dal ritrovamento Marco Antonio avvisa subito la polizia… arrivano gli artificieri, disinnescano l’ordigno che alla fine si rivela composto da circa cinque chili di potente esplosivo, sufficienti non solo per straziare le persone di passaggio al momento dell’esplosione, ma anche per arrecare gravi danni agli abitanti e alle case delle vicinanza fra le quali anche la sua. A partire da quel momento Marco Antonio divenne automaticamente in informante con solo 48 ore per sparire prima di diventare lui stesso e la sua famiglia obbiettivo militare.
Erano gli ultimi giorni di febbraio quando Marco Antonio partì con destino alla città di Cali: in tasca aveva solo i documenti di “desplazado” che avrebbero dovuto aprirgli qualche porta che effettivamente si aprì ma con non poche difficoltà e senza risultati significativi… e i bisogni crescevano.
Si sa che quando i bisogni sono grandi e i soldi pochi… anche ogni piccolo ingresso fa una gran differenza. Marco Antonio quando si trovava a Toribío riceveva una volta al mese l’aiuto di “familias en acción”, una piccola elemosina concessa dal governo per le famiglie povere e con figli in età scolastica. Per continuare ad averla mentre la burocrazia faceva il suo corso nel nuovo municipio di residenza, ogni mese Marco Antonio si cimentava in un pericoloso pellegrinaggio a Toribío per riscuotere e scapparsene via in fretta e furia prima che qualcuno possa vedere, avvisare e sentenziare.
Poi lunedì 8 di dicembre, festa dell’Immacolata, tutto precipitò. In quel fine settimana era venuto accompagnato da due figli: dal maggiore e da James, il più giovane di tutti e la persona che sempre lo accompagnava quasi ovunque. La vittima è proprio lui, James. Lunedì qualcuno lo ha visto, qualcuno lo ha catturato e se lo porta via dalla piazza principale del paese, qualcuno lo ha caricato su una moto che prende la strada che da Toribío scende verso la pianura. A metà strada c’è il ponte su fiume. Lì qualcuno spara e il cadavere finisce nel fiume. James, un biondino dagli occhi chiari, così diverso dal comune della gente di qua, aveva compiuto da pochi mesi 16 anni.
Solo alla sera, già all’imbrunire, in ospedale finiscono la autopsia e le lungaggini burocratiche ed è ormai notte quando il feretro entra in una chiesa gremita di gente. In prima fila il papà, un po’ in disparte il fratello maggiore, e poi tutto o quasi tutto il paese. È appena finita la messa quando se ne va anche l’energia elettrica e la chiesa piomba in un buio rotto solo dalla luce tenue del cero pasquale acceso al lato della bara. In silenzio e al buio accompagnano James verso la “camioneta” che è pronta sulla porta della chiesa. La luna piena illumina la notte e la gente si accalca attorno al furgoncino sul quale si caricano i resti mortali di James. Con un grosso cavo si lega la bara per non farla scivolare. E poi i tre che erano arrivati in paese il fine settimana ripartono verso il fondovalle dove li attende il resto della famiglia pronta a velare James per l’ultima volta.
Due giorni dopo qualcuno mi dice che anche chi ha premuto il grilletto, o ha dato l’ordine di farlo, era presente in chiesa. James “descansa en paz”… ma la guerra continua.
(Toribío, Dicembre 2008)
La benedizione rubata
Non sono molto lontano da casa e ormai si è fatto notte (all’equatore il crepuscolo e l’alba sono belli ma durano soltanto pochi minuti). Improvvisamente sbuca in mezzo all’oscurità una bambina che avevo già visto il giorno prima: si era presentata in cattedrale con un mazzo di fiori, strappati in qualche modo da un arbusto, e che bisognava mettere, insiste, davanti al tabernacolo. Non so quanti anni possa avere, il colore della pelle e le fattezze dicono che è di origine indigena ma certamente qualche familiare prossimo non lo è. Insomma, indigena al 75%. Zoppica in modo molto evidente… forse il ricordo di qualche malattia del passato non curata o curata male. Quando mi taglia il cammino mi chiede, senza far troppi giri “ma dove vai a quest’ora?”. Mi sento come un adolescente preso in fallo e non riesco a rispondere niente di diverso se non “a casa mia, mi vuoi accompagnare?”. “A no Padre… è già un po’ tardi, poi mia mamma si preoccupa… ad ogni modo dammi una benedizione”. “Ti benedico nel nome del Padre, del Figlio y del Spirito Santo”. “Ciao, a domani” -mi dice- e in pochi secondi svanisce. Non ho nemmeno fatto tempo a chiederle il nome. Provvisoriamente la chiamo “la bambina che mi ha rubato la benedizione”.
(Puerto Leguízamo, Ottobre 2010)
Lettera a Gesù bambino
Carissimi bambini di Civate. Vi scrivo da una terra dove anche a Natale fa caldo come a ferragosto. Dove piove molto spesso in modo repentino ma il sole è sempre più forte e asciuga tutto in poco tempo. Dove tutto o quasi tutto é verde, gli alberi sono altissimi e vivono popolati di pappagalli e scimmie ed orchidee. Dove le famiglie degli indigeni si riuniscono in una grande capanna chiamata Maloca per prendere le decisioni più importanti. Dove ai bambini come voi piace camminare e correre scalzi perché la terra e l’erba si sente sempre piacevole sotto i piedi, Dove anch’io ho provato a celebrare la messa a piedi nudi perché le scarpe erano troppo infangate dopo un percorso di due ore a piedi… e a nessuno e sembrata una cosa strana. Dove una bambola si butta via quando ha perso tutti i capelli e magari anche la testa, e la macchinina o il trenino, anche senza ruote, continua a correre. Dove il regalo più bello che si può fare è un gattino, o un cagnolino, ma anche un pollo e una gallina. Vi scrivo da una terra che é un sogno e che amo tantissimo…
(Puerto Leguízamo, dicembre 2011)
Cento quattro pulcini e mille pesos
Anna ha dieci anni e fa la chierichetta. Abita con sua nonna (che lei chiama mamma) in una casa di legno, con il pavimento di terra battuta e il tetto di zinco piuttosto maltrattato e in qualche parte, mi sembra di vedere, abbastanza bucherellato. La nonna la chiama mamma perché quando aveva dieci mesi la sua mamma l’ha abbandonata assieme ad altre due sorelle più grandi di lei e da allora non si è saputo più niente della mamma di lei, non si sa nemmeno dove possa essere. Le altre due sorelle vivono assieme ad altri familiari, ogni tanto si sentono per telefono, ma da anni non si vedono. Con il papà sette anni fa si trasferì in un villaggio nel Putumayo dove avevano comprato un po’ di terra. Ma questi, poco tempo dopo, fu assassinato in circostanze mai chiarite. Così Anna è rimasta sola con la mamma-nonna (classe 1936, la stessa età di mio papà) e con il marito di lei, molto più anziano della mamma, classe 1916 ma ancora arzillo e vigile malgrado i suoi 97 anni compiuti.
Vivono allevando polli che poi Anna fa fatica a sacrificare per venderne la carne perché sono ormai diventati i suoi “animalitos”; tre settimane prima erano arrivati 104 pulcini nuovi e in casa questo sbarco era stata tutta una festa.
Era un po’ che mi diceva che dovevo andare a visitarla alla casa e oggi ho potuto farlo perché non devo correr via per celebrare l’ultima messa della giornata. Resto con loro circa una mezz’oretta ma poi comincia a diventar buio. Anna allora si avvicina alla mamma e le bisbiglia qualcosa all’orecchio, poi parte, torna e mi mette in mano qualcosa… è un biglietto di mille pesos, piegato piccolo piccolo “è per il mototaxi -mi dice- così puoi tornare a casa più agevolmente perché è quasi notte”. Quando esco mi aspetta all’orizzonte il tramonto più bello che ho potuto vedere in questi mesi, me ne torno a casa a piedi stringendo fra le mani l’obolo della vedova del vangelo, una vedova di dieci anni… prossima magari a rimanere totalmente sola, ma “será lo que Dios quiera”.
(Puerto Leguízamo, aprile 2012)
Gallina fa rima con cocaina
Sono le due del pomeriggio di una domenica infuocata come poche e con un sole accecante. Per fortuna, una leggere brezza rinfresca almeno qualche parte della casa, piú in ombra, dove ci si può rifugiare cercando di ingannare il tempo mentre passano le ore della canicola. Sto in questo momento finendo di lavare i piatti quando chiamano alla porta. Davanti a me una coppia che la mezza età apparentemente l’hanno superata da un po’ anche se è sempre difficile stabilire gli anni delle persone di questa regione che spesso appaiono sciupati e maltrattati dal clima e dalle fatiche della vita nella selva.
Prende la parola la signora che dice: “Quando tre mesi fa vedemmo il padre Antonio in occasione della visita alla vereda le avevo promesso una gallina e siamo venuti a portarla” e dietro alle spalle di lui compare una gallina di campo rossiccia e perfettamente “impacchettata”: le zampe erano sciolte ma tutto il corpo era avvolto da quello che sembra essere “un costal”, un sacco di fibra sintetica nel quale normalmente si trasportano granaglie. “Solo che c’è un problema -continua- in questo momento la gallina è carica di “mercanzia” (da queste parti sinonimo di cocaina) ci permette scaricarla magari dietro quell’alberello? La gallina per il suo pollaio e con la mercanzia noi andiamo a Puerto El Carmen a fare la spesa”.
Il accompagno anche perché sono tremendamente curioso di vedere come si carica una gallina di mercanzia. Quando si apre il solido nodo che racchiude la gallina lasciando libera solo la testa e le zampe non riesco ancora a vedere niente ma appena si alzano le ali eccola. Due borse di plastica trasparenti e non piccole una sotto ogni ala. Il piccolo carico di cocaina finisce in uno zaino pieno de vestiti in disordine e la gallina torna ad essere una gallina qualunque.
Seduti in fondo alla chiesa mi raccontano la loro storia, fatta di stenti, avventure, migrazione, selva. Nati vicino a Cali, il miraggio delle coltivazioni illecite li ha portati prima nel Caquetá e poi nel Putumayo. “Bisogna sempre essere pronti a partire perché la sorte in questa particolare attività commerciale può cambiare de un momento all’altro”.
– Padre, a che ora è la messa dall’altra parte? Abbiamo così poche occasioni per partecipare che non vorremo perderla?
Quando, tre quarti d’ora più tardi arrivo alla cappella di Puerto El Carmen, li cerco e li trovo cambiati e sorridenti seduti a metà chiesa: gli stivali hanno lasciato il posto alle scarpe, i vestiti smessi e da giungla sono stati sostituiti da altri più adeguati al paesaggio urbano che ci circonda, lo zainetto non è con loro e lo stesso spero che succeda con la mercanzia. Partecipano alla messa devoti e al momento della comunione sono in fila con tutti.
(Puerto Ospina, Giugno 2012)
Una bara costa più di 15 mila pesos
Oggi è finito, dopo una intensa settimana di mobilizzazioni lo sciopero contadino che ha bloccato per giorni strade e fiumi del Putumayo. Che non fosse uno sciopero spontaneo e saputo… i governi civici di tutte le comunità, obbligati dalle Farc, apportavano mezzi di trasporto, viveri e persone alle manifestazioni per far sentire al governo e alle oligarchie la voce chiara e compatta di coloro che dicono NO alla svendita alle multinazionali di ricorsi minerari che appartengono a tutti i colombiani.
In Porto Ospina forse non erano arrivate correttamente le notizie, o forse ha prevalso la fatica di altre manifestazioni analoghe… quel che è certo è che nessuno aveva partecipato per cui tutti stavano aspettando le ritorsioni della guerriglia che non poteva far passare una così grave insubordinazione.
Fin dal primo mattino era corsa di casa in casa e di bocca in bocca la notizia che nel tardo pomeriggio si sarebbe svolta una riunione generale e urgente di tutti gli abitanti del villaggio per cui all’ora stabilita non mancava proprio nessuno.
– La cosa é molto semplice -dice il segretario del consiglio senza voler raddolcire l’amaro boccone- dobbiamo collaborare con le spese dello sciopero dal momento che non abbiamo fatto nient’altro. Ci chiedono due milioni di pesos che dobbiamo raccogliere in tutte le famiglie e che devono essere pronti stasera, al massimo domani mattina.
Quelli che vengono preparati mettono mano al portafoglio e il segretario annota in un quaderno di scuola i nomi delle famiglie che hanno compiuto il loro dovere.
– Anche la parrocchia deve pagare?
Prima di rispondere mi guarda con fare confuso, poi guarda il quaderno e alla fine il presidente della giunta e mi dice
– No Padre, la parrocchia non è nel censo della comunità… pero guarda come siamo messi”
Gli passo un biglietto di 20 mila pesos, annota nel suo quaderno il nome e mi restituisce il resto dicendomi “grazie”.
Mentre mi allontano, dopo aver fatto anch’io il mio dovere, il “corregidor” mi regala la perla della giornata.
– Padre, una bara, costa più di quindicimila pesos!
(Puerto Ospina, Ottobre de 2012)
Gli occhiali griffati di Mary
Questa mattina a Jandiayaku è arrivata nel salone comunale una famiglia che non avevo mai visto. Era una giovane donna con tre bambine, la maggiore già signorina, una bebè e un’altra di otto o nove anni che portava gli occhiali e per di più con una montatura carina e colorita… una cosa davvero insolita.
L’insolito sta nel fatto che, da queste parti, nessuno porta gli occhiali. L’oculista è un medico che non si visita mai e solo in casi davvero straordinari, quando proprio no si vede più niente, si va in farmacia e si provano gli occhiali in esposizione marcati con etichette dal messaggio sibillino: +1, +1,5, +2. Quando si scopre quello che serve si compra e si usa senza staccare nemmeno il l’etichetta, ¡meglio non toccare niente mentre l’occhiale funziona!
Mi si avvicina la mamma e scopro da dove vengono gli occhiali.
– Buongiorno Padre, questa bambina è mia figlia e si chiama Mary. Ha nove anni ma ha fatto già la preparazione della prima comunione e a me piacerebbe poterla celebrare. Mi han detto che da queste parti l’età per farla sono 12 anni, ma lei si è preparata prima perché è nata e vissuta fin’ora in un paese lontano: è nata a Camogli, in Italia, vicino a una città che si chiama Genova. A Camogli faceva anche la chierichetta e a Camogli si fa la prima comunione quando i bambini sono nel quarto anno della scuola che là chiamano elementare. Ho la lettera del parroco, con il timbro. Sarà possibile fare uno strappo alla regola per la mia bambina?
Con mio marito, che fa l’elettricista, sono partita 12 anni fa quando la maggiore delle mie figlie aveva solo tre anni. Poi abbiamo avuto Mary e poi anche questa piccolina. Quando ho lasciato l’Ecuador avevo un po’ paura di quel che avrei trovato ma oggi sono innamoratissima di quel paese così bello, dove ho potuto costruire la mia famiglia e crescere le mie bimbe. Mi mancano gli amici, mi manca il mare di Camogli, mi mancano gli spaghetti con i gamberetti.
Io facevo le pulizie e ogni tanto curavo anche qualche vecchietto… mi son fatta tanti amici e gli occhiali di Mary me li ha regalati la figlia di una signora anziana che accompagnavo e che è oculista. Quest’anno mio marito è stato operato al menisco e ai tendini del ginocchio e ha dovuto fare una convalescenza piuttosto lunga e per questo siamo rientrati lo scorso mese di Giugno. Poi il suo datore di lavoro l’ha chiamato un sacco di volte e allora è ripartito da solo perché nel frattempo sono sopraggiunti degli inconvenienti. Appena posso spero poter ripartire anch’io… è dura la vita da queste parti: il sole brucia, alcuni prodotti sono più costosi che in Italia, la mia più piccola si ammala facilmente, passa da una diarrea all’altra e adesso sta perdendo peso. Spero poter ripartire al più presto.
– Ce l’hai il panettone per Natale, chiedo a Mary in Italiano.
– No, mi risponde mesta, e una lacrimona scorre giù e resta attaccata alla montatura dell’occhiale.
Mary ha tutto l’aspetto di una bambina dell’Ecuador: morenita, piccola di statura, un sorriso accattivante, una buona dose di sangue Kichwa che ha ereditato della mamma che l’ha cresciuta facendo la badante… eppure in quel cuoricino e in quella lacrima c’è tutta una vita indiscutibilmente italiana, fin dal primo giorno e dalla prima poppata, forse più italiana di me che da cinquant’anni faccio, fra le altre cose, anche l’italiano.
(Lago Agrio, dicembre 2014)
PENSIERI E PUNTI FERMI
Comunicare la missione
I due anni che ho passato in Italia li dovrei definire come il peggior fallimento comunicativo della mia vita. Non ero mai stato geograficamente così prossimo alla mia terra di origine da quando avevo 14 anni… eppure ho sperimentato l’oggettiva difficoltà di capire i miei propri conterranei che frequentavano il centro di Animazione Missionaria nel quale dovevo lavorare. Non parlavo correttamente il dialetto, in italiano dicevo “obbiettivo” e non “target” e Berlusconi non era fra i miei target. Nemmeno nella missione più impegnativa che abbia mai sperimentato mi sono sentito così fuori posto come lì. Avevo un sacco di risposte per domande che nessuno o quasi nessuno porgeva e nessuna risposta per le preoccupazione di tutti o quasi tutti. Come prodotto di questa esperienza avvenuta quasi all’età che Dante chiama il “mezzo del cammin di nostra vita” sono scaturite cose che in parte si raccolgono in questo “decalogo della comunicazione missionaria”.
1. Il tuo primo impegno comunicativo è l’evangelizzazione. Se hai scelto di essere un evangelizzatore necessariamente devi avere la comunicazione nel sangue e una comunicazione che esige conversione e una vita nuova. Altri spazi comunicativi che coltiverai saranno funzionali a questo per il quale hai consacrato la tua vita.
2. Un mondo nuovo non sarà possibile senza una nuova umanità. Come missionario puoi collaborare alla costruzione di questa nuova umanità nella misura in cui tu sappia costruire ponti di fratellanza, solidarietà e simpatia fra i popoli e le culture che, per la loro diversità sono una rivelazione della “multiforme grazia di Dio”.
3. Aiuterai allora a capire che le frontiere non separano mondi diversi e irriconciliabili ma molteplici manifestazioni della stessa umanità. L’altro è lo specchio migliore nel quale possiamo vedere riflesso il nostro stesso volto. Insegna a cercare l’altro e ad approfittare delle opportunità che si generano quando si attraversa una frontiera.
4. Prima ancora di essere fonte di notizie devi essere fonte di codici interpretativi che permettano rendere più fluida la comunicazione in questa umanità globalizzata. Non dimenticare mai che i tuoi codici non sono universali, ricevi sempre con gratitudine e non disprezzare quelli che altri ti possano offrire.
5. Inverti il tuo miglior impegno in vivere e testimoniare la missione in una prospettiva ecologica più che economica. Da un punto di vista ecologico ogni ecosistema umano fa tutto il possibile per aver cura della madre terra che, essendo la casa comune di tutti, non è proprietà di nessuno. Questa “casa” è l’unico spazio conosciuto nell’universo nel quale l’uomo può vivere degnamente, l’abbiamo ricevuta in eredità e la dobbiamo trasmettere integra e ben curata alle future generazioni.
6. Quando sei disposto comunicare comincia sempre dalla tua vita ricordandoti che la missione è parte della tua vita e nessuno meglio di te la può raccontare. Non pensare che a nessuno interessi: in un mondo così oggettivato dalla scienza è urgente recuperare la dimensione soggettiva della narrazione del racconto.
7. Non disprezzare nessuno spazio comunicativo anche se può sembrarti inappropriato e inadeguato. Se c’è qualcuno in ascolto vale sempre la pena comunicare.
8. I Mass Media non sono tuoi nemici né nemici del progetto per il quale stai dando la vita. Non cercare mai in loro una imparzialità che nessuna impresa comunicativa, in quanto impresa, potrà mai darti. Difendi invece il loro pluralismo che è la più chiara garanzia democratica in un modo dominato da oligopoli. Per questo motivo non leggerai sempre lo stesso giornale, o ascolterai la stessa radio, né frequenterai la stessa pagina web.
9. Ricordati che generalizzare e semplificare può servire come strategia pedagogica ma per capire in profondità le cose bisogna evitare ogni generalizzazione e semplificazione.
10. Non ci sono ragioni economiche, ideologiche e istituzionali che possano giustificare una informazione cattiva o parziale. Fai sempre il meglio che puoi ma non dimenticare che lo “Spirito ci porterà alla verità piena” e per questo motivo sii sempre umile nella tua comunicazione.
(Toribío, Luglio 2007)
Ma che missione?
Questa riflessione è frutto di una messa celebrata il giorno della festa di San Luca a Puerto Ospina in due: io che ero il presidente, e Maria Esperanza, laica missionaria che formava parte della nostra comunità missionaria. Nessun altro. I pochi cattolici di questo piccolo villaggio sulle sponde del Putumayo erano poco avvezzi alla messa domenicale alla quale partecipavano non più di una quindicina di persone. In settimana lo spazio più appropriato era la sala della casa parrocchiale dove c’eravamo quasi sempre solo noi.
Nel vangelo di Luca che narra la missione dei settanta due discepoli (10,1-12), abbiamo una sintesi della “teologia missionaria”: una missione fatta in comunità, “li inviò a due a due”, illuminata dalla preghiera “Pregate dunque il padrone della messe”, nella povertà di mezzi “non portate borsa, né bisaccia, né sandali”, sempre ottimisticamente animata dal saluto della pace “in qualunque casa entriate, prima dite: pace a questa casa”, disposta all’accoglienza “Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno”, senza dimenticare che, invece di accoglienza, a volte ci aspetta il rifiuto e in questo caso l’atteggiamento del missionario è quello di essere “come agnelli in mezzo a lupi”. Chissà quanti ritiri abbiamo fatto masticando queste parole, o chissà quanti “mea culpa” abbiamo proferito sentendoci inadeguati di fronte al modello.
Eppure non possiamo dimenticare che anche il messaggio della prima lettura descrive bene la missione nella sua prospettiva pastorale e concreta. Nella chiusura della seconda lettera a Timoteo (4,9-17) non appare immediatamente una missione fatta in comunità, ma un missionario che tante volte resta solo perché ha perso i sui compagni di viaggio “Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia”, per cui ha bisogno di improvvisare per ricostruire la comunità “Cerca di venire presto da me”. Invece dell’assoluta povertà di mezzi ecco comparire i bisogni. “Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene” e invece dell’accoglienza ecco la persecuzione “Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario” e una persecuzione dolorosa se si ricorda che nel momento del pericolo, la prima volta in tribunale, “nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato”.
Solo alla fine di queste due letture, così distinte e distanti, ecco apparire il punto di contatto che è il vangelo che annunciamo. Le due letture terminano allo stesso modo… “Il Signore mi è stato vicino perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili”, “dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio”.
Se non vogliamo ideologizzare o falsificare la realtà della missione, probabilmente dovremo imparare a vederla nella doppia prospettiva di queste letture. Fatta in comunità ma spesso marcata dalla fragilità e l’inconsistenza della stessa; povera nei mezzi… eppur bisognosa di tante cose; disposta a costruire i ponti che la solidarietà e l’accoglienza sanno stabilire, e sono ponti di vangelo e canali di buona notizia, ma anche capace di assumere l’impotenza di una persecuzione ingiustificata e una solitudine che spesso fa piangere.
(Puerto Ospina, Ottobre 2012)
Con il carisma della Consolata
Questa riflessione è nata in occasione della morte di mia mamma alla fine del mese di ottobre del 2017. Avevo esaurito le mie vacanze cinque giorni e stavo appena arrivando al mio luogo di lavoro nella città di Manizales quando mi raggiunse la notizia che la sua malattia, che mi avevano detto che sarebbe stata lunga, era improvvisamente arrivata al suo esito finale. Non mi sembrava il caso di ritornare a casa meno di una settimana dopo, ho preferito ringraziare Dio di avermela mostrata ancora una volta viva e quindi scrissi, per lo meno la prima parte di quanto segue, leggendo le parti umanamente scoperte dell’immagine della Consolata… i volti, le mani e i piedi nudi di Gesù.
La benedizione e l’annuncio
Il primo gesto, che occupa quasi tutto il centro dell’immagine, è ieratico e apparentemente freddo. Le mani del bambino e della mamma sono prossime ma non si toccano, con la sua mano benedicente e con il suo sguardo profondo ci interpella. Quasi tutti i bambini fissano il loro sguardo sul volto delle loro mamme e invece in questo caso no: noi siamo il centro della sua attenzione, ci guarda e ci benedice e invece sua mamma sembra accarezzarlo con la mano e con gli occhi sottolineando l’importanza di questa benedizione.
Il sostegno
Invece l’altro gesto, più periferico nell’immagine, ritrae la mano del bambino, dolcemente avvinghiata al dito pollice dell’altra mano della mamma che lo sostiene con fermezza in braccio. Si tratta di un sostegno discreto, quasi nascosto, potrebbe perfino passare inavvertito eppure ha una importanza straordinaria. L’annuncio non si può fare solo se si rispettano le persone, le relazioni, i bisogni, anche la nostra pesante umanità.
L’incarnazione
È la principale virtù missionaria e la vediamo nei piedi nudi del bambino. Perché la Consolata sembra essersi dimenticata di un paio di scarpette per il suo bambino appena nato? o ci sarà un altro motivo? Forse Gesù ha fatto sue le parole del Padre a Mosé “togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è terra santa” e anche lui si è avvicinato scalzo alla nostra umanità. Non c’è niente di scoperto nella figura di Maria all’altezza dei piedi di Gesù ma sappiamo che lì c’è il suo ventre, il suo utero, lo spazio concreto, assolutamente e perfettamente umano dove Dio si è fatto carne. Solo Arcabás, l’iconografo francese recentemente scomparso, ha il valore di dipingere la vergine nuda con un sole nel ventre che unisce, racchiuso da un abbraccio materno, l’azzurro del cielo di Dio con l’oscurità di una umanità bisognosa di luce. La luce ormai prossima a venire al mondo.
Apri le tue ali e vola
Siamo stati liberati come un passero dal laccio dei cacciatori: il laccio si è spezzato e noi siamo scampati. Il nostro aiuto è nel nome del Signore: egli ha fatto cielo e terra. (Sal 124, 7-8)
Con queste due immagini vorrei riassumere il percorso de 25 anni di consacrazione sacerdotale e missionaria, La prima si trova nel museo del Prado a Madrid e la seconda in Colombia, nella città di Chiquinquirá ed è la madonna del rosario patrona di questa nazione. Ciò che unisce queste due immagini è un uccellino che il bambino Gesù sostiene nelle sue mani.
Davanti alla prima, dipinta da un importante pittore spagnolo del secolo XVII, Bartolomé Esteban Murillo, mi ero fermato un bel po’ quando nella metà degli anni ottanta raggiunsi Madrid per gli studi di teologia. Si dipinse quando, all’auge della riforma cattolica tridentina, la chiesa trattava di avvicinare il sacro alla vita quotidiana di tutte le persone: io avevo sempre pensato la missione in questo modo. Ricordo aver regalato una stampa di questo quadro alla mia cugina Lucia nel giorno del suo matrimonio. In questa Sacra Famiglia Maria si vede in un secondo piano davanti all’arcolaio attenta al suo lavoro ed altrettanto attenta a ciò che sta accadendo nel primo piano dove Giuseppe, lasciati gli attrezzi del mestiere, partecipa ai giochi di Gesù bambino con un uccellino e un cagnolino.
La seconda immagine ha circa cent’anni in più della prima ma una storia molto più umile che ascende a Antonio de Santana, “encomendero” dei paesi di Suta e Chiquinquirá che aveva fatto dipingere al pittore spagnolo Alonso de Narváez una immagine della Madonna del Rosario, fiancheggiata da San Andrea e San Antonio di Padova, destinata a una cappella di sua proprietà.
Siccome la cappella aveva il tetto di paglia in poco tempo la pittura si deteriorò gravemente fino a quando, nel 1586 María Ramos, una pia signora originaria di Sevilla, decise restaurare il tempio e dare uno spazio più degno alla deteriorata immagine. Il 26 dicembre di quell’anno una donna indigena chiamata Isabel vide il dipinto avvolto da colori brillanti: riapparvero i colori originali e scomparirono i graffi e gli strappi della tela.
Che ci possa essere di storico in questa miracolosa restaurazione francamente non lo so pero posso dire con certezza che la madonna di Chiquinquirá, lo stesso che la Consolata, non è mai apparsa ma è stata ritrovata e recuperata dal deterioramento e la dimenticanza.
Anche nell’immagine di Chiquinquirá il bambino ha un uccellino nella mano. Non conosco altre immagini in cui Gesù Bambino appaia con un uccellino ma queste due, che attraversano geografie fondamentali della mia vita, mi fanno pregare con il salmo 124 “Il nostro aiuto è nel nome del Signore: egli ha fatto cielo e terra” questo Signore che fino a quest’oggi mi ha concesso la libertà di volare e mi ha anche salvaguardato del “laccio del cacciatore”. Lo vedo nella solidarietà, nell’affetto, l’amicizia e il sostegno di tanti amici perché “quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come di aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 31).
Arepa, cioccolato e caffè
Il paesaggio culturale “cafetero” della Colombia, patrimonio della umanità dell’UNESCO “è un esempio dell’adattamento dell’uomo a condizioni geografiche difficili nelle quali ha sviluppato la coltivazione del caffè in pendenti montagnose di difficile accesso. È un esempio, unico al mondo, nel quale si concentrano elementi naturali, economici e culturali in perfetto equilibrio”. Questa é la mia nuova casa e in lei ho trovato altre belle persone che mi hanno portato a una nuova tappa dove il pane e il vino, atavico e sacramentale, è sostituito dall’arepa, il cioccolato e una tazza fumante di caffè.
Questa storia continua… UN SINCERO GRAZIE A TUTTI VOI
Padre Gianantonio Sozzi