editoriali

L’inquietudine dell’aborto – di Marina Casini

Che si torni a parlare di aborto – al di là delle parole, degli schieramenti, dei modi, dei toni e delle fake news – significa che il tema non è sopito e che l’inquietudine è ancora presente. Buon segno. Dunque c’è sempre spazio per una riflessione ferma e serena che parli di “lui”, del vero protagonista – insieme alla sua mamma – e purtroppo spesso grande assente nelle discussioni. In questa campagna elettorale i dibattiti si concentrano sia da una parte che dall’altra, con diverse motivazioni, sulla “immodificabilità” della legge 194. Entrano in campo i temi importantissimi della maternità e del femminile, della salute delle donne ancor più minacciata con la Ru486, dell’obiezione di coscienza, dell’inverno demografico. Ma la ragione di fondo, l’ultima, la più semplice ed elementare, per la quale l’aborto non solo non è un diritto ma è anche una profonda ferita inferta alla comunità civile, è che «quanti sono concepiti sono figli di tutta la società, e la loro uccisione in numero enorme, con l’avallo degli Stati, costituisce un grave problema che mina alle basi la costruzione della giustizia, compromettendo la corretta soluzione di ogni altra questione umana e sociale» (papa Francesco, 2 febbraio 2019). So che può non essere “politically correct”, ma da qualunque lato si prenda il tema dell’aborto, il punto focale resta lo sguardo sul figlio. Interrompere la gravidanza chirurgicamente non è come asportare un’appendice infiammata; deglutire una pillola che certamente (Ru486) o eventualmente (Norlevo, Levonelle, EllaOne) impedisce a chi ha iniziato a vivere di continuare a farlo, non è come deglutire una pasticca di multivitaminico. Non dobbiamo temere di essere irrisi o impopolari se affermiamo che il concepito è un membro della famiglia umana come lo siamo tutti: il dovere di carità (la vita umana è legata a un mistero di amore, e l’amore è necessario per comprendere il valore della vita) non ci esime dal dovere della verità; non giudicare mai le persone non significa non giudicare la cultura. Non è divisivo parlare della vita in presenza di leggi sull’aborto, come non lo è parlare della pace quando c’è la guerra. Ovviamente dobbiamo tenere ben presente la specialissima situazione della gravidanza e avvolgere nell’abbraccio la donna anche quando alle sue spalle ha un’esperienza di aborto: «Non si può essere contro l’aborto per amore dell’uomo se non si ama ogni uomo».
La questione della legge è complessa. Certamente le leggi sull’aborto sono leggi più o meno ingiuste, e nessuna legge è per sua natura “intoccabile”. Neanche la Costituzione lo è. Tuttavia è necessario capire nel contesto storico-politico contingente se e fino a che punto la richiesta della loro abrogazione o della loro modifica nel senso più favorevole al diritto a nascere può essere attivata senza incorrere in un danno più grave della legge stessa. Sul piano della legge si tratta quindi, con illuminato discernimento, di muovere i passi seguendo il criterio della gradualità ispirato da un sano realismo. Si può nel frattempo agire sul piano amministrativo chiedendo al Ministero della Sanità di presentare nella relazione annuale sulla legge i dati concernenti la prevenzione dell’aborto a concepimento avvenuto. Inoltre l’amore per la vita è di gran lunga più importante dell’obiettivo di riformare la legge ingiusta – laddove nelle circostanze concrete questa riforma è impossibile – al punto che si avvale anche degli spezzoni della legge ingiusta che orientano a preferire la nascita piuttosto che la morte. In ogni caso, più importante ancora è continuare a mobilitare un’autentica cultura per la vita, dell’accoglienza, della solidarietà, della condivisione nei confronti delle maternità difficili o non attese. Lo stile quotidiano deve essere quello di chi non si stanca di gettare ponti, di avere fiducia in un residuo di buona intenzione, magari nascosta in chissà quale profondità, dell’interlocutore; quello che mantiene la speranza nella gioia di una grande fatica. Questa è la via per trasformare la cultura e, un po’ alla volta, di conseguenza, anche le leggi ingiuste. Non sono infatti in gioco solo il diritto alla vita del concepito e la tutela della maternità, ma la legittimazione di ogni altra azione civile a difesa dell’uomo. Ecco perché «il diritto a nascere è il vero pilastro della vita sociale», come si legge nel «Manifesto» di San Felice sul Lago di Garda approvato da tutti i partecipanti al quinto Corso di alta formazione per operatori dei Centri di aiuto alla Vita.

Marina Casini – Presidente Movimento per la vita italiano (Pubblicato su Avvenire)

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