Ripartire dalla Pasqua veterotestamentaria giudaica per comprendere e vivere l’eucaristia
-L’opera della perfetta glorificazione di Dio e della redenzione umana è stata compiuta da Cristo, specialmente per mezzo del mistero della Pasqua, con il quale, morendo, ha distrutto la morte, e risorgendo, ha ridato la vita a tutti. Il triduo pasquale risplende al vertice di questa “memoria sacra” coprendo tre momenti sul piano celebrativo: la Pasqua rituale il giovedì Santo, la Pasqua-passione al Venerdì Santo e la Pasqua-risurrezione alla Veglia o attesa notturna della risurrezione. Il triduo quindi attualizza il mistero pasquale, lo rispecchia nei suoi riti, lo riproduce nella sua divina virtù e lo rende accessibile ai fedeli di ‘buona volontà’. Perciò la Chiesa raccomanda di non celebrare in fretta queste liturgie, perché tutti i riti e tutte le parole raggiungano la loro massima “forza di espressione”. Nell’avvenimento della morte-risurrezione di Gesù occorre riconoscere il vero compimento della pasqua ebraica. Infatti come erede della tradizione giudaica, la Chiesa primitiva non ha inventato una altra festa per celebrare la salvezza realizzata da Dio in Cristo: essa ha compreso in modo nuovo una festa già esistente. La comprensione autentica della pasqua cristiana, cioè dell’eucaristia, passa assolutamente attraverso quella della pasqua ebraica. Dunque, per comprendere e vivere la Pasqua oggi bisogna ricollocarla nel suo contesto originario, nell’Antico Testamento, poiché entro la cornice pasquale veterotestamentaria, secondo il racconto dei Sinottici, fu celebrata ed istituita per la prima volta la liturgia eucaristica della pasqua cristiana. Dalle 49 volte che questo termine vi ricorre,34 volte indica il rito del primo plenilunio di primavera, e 15 volte l’agnello immolato in quell’occasione. Pasqua sembra avere significato inizialmente la danza (o il saltare), rituale che si svolgeva in occasione della festa. Tale significato fu facilmente assunto dalla teologia giudaica, in quanto, in coincidenza con una memorabile festa primaverile, Yahve “saltò oltre” le case degli Israeliti contrassegnate dal sangue dell’agnello sacrificato, risparmiandole (Es 12, 13.23.27).
Breve sintesi storica della festa della pasqua veterotestamentaria-giudaica
-I riti che stanno all’origine della pasqua ebraica risalgono ad una antichissima celebrazione familiare, prebiblica e “pagana”, con la quale i pastori solennizzavano l’inizio del nuovo anno di pascoli (nel mese di abib, in seguito nisan), nella notte precedente la partenza per i pascoli estivi: al chiaro della luna si immolavano i priminati del gregge il cui sangue veniva impiegato a scopo apotropaico (cioè di protezione e difesa) e propiziatorio, per proteggere pastori e greggi da influenze demoniache e assicurare la fecondità (l’agnello era offerto alla divinità con lo scheletro integro affinchè questa lo facesse rivivere, cioè creasse sempre nuovi animali), mentre la carne veniva consumata come pasto cultuale per riannodare e rinsaldare reciprocamente i vincoli di parentela della famiglia come dell’intera tribù. Nel caso dell’esodo Mosè e gli Israeliti avrebbero, per ordine di Dio, assunto singoli riti di questa festa di primavera già esistente, per premetterli, come solenne introduzione e come sicura garanzia di salvezza alla grande salvifica “evasione” nel deserto. A questi riti restò affidato il ricordo di quel fondamentale avvenimento salvifico. La festa fu “storicizzata” – e con essa tutti gli elementi che la costituivano – e fu orientata in un processo rifondativo di assimilazione e di reinterpretazione, anzitutto al servizio dell’economia della salvezza. Le erbe amare ricordano ormai l’amarezza della schiavitù egiziana, il pane senza lievito prodotto non mescolato, e incorrotto, del nuovo raccolto, fa pensare alla fretta con cui gli Israeliti partirono senza avere il tempo di fare lievitare la pasta (Es12, 39; 13, 3-8). La festa è celebrata in primavera, perché all’inizio di quella stagione Israele uscì dall’Egitto, ed è festa notturna, perché l’esodo ebbe luogo in una notte rischiarata dalla luna piena (Dt 16,1). Ne riparleremo più avanti. Vogliamo adesso analizzare brevemente i diversi elementi che costituiscono la pasqua veterotestamentaria-giudaica.
Gli elementi della celebrazione pasquale: il pane azimo, l’agnello, il vino e le erbe amare
-A proposito del pane senza lievito, Massôt era originariamente una festa di primavera propria di un ambiente agricolo, di popoli coltivatori, non nomadi. In quanto festa agraria legata alla natura, Massôt celebrava l’inizio solenne della mietitura considerata azione sacra. Caratteristica di essa era l’offerta del primo covone nel santuario e il mangiare per una settimana esclusivamente pane non fermentato, prodotto quindi non mescolato, e incorrotto, del nuovo raccolto. Anche questo rito aveva nella sua origine scopo apotropaico e di propiziazione; esso fu pure “storicizzato” e posto in relazione con l’esodo. Il fatto che tanto la celebrazione della pasqua (con l’agnello) quanto la festa degli azimi abbiano assunto lo stesso contenuto e significato, e dall’altra parte la circostanza del loro coincidere nel tempo (mese di primavera), portarono assolutamente, nel corso del loro sviluppo, ad una progressiva concrescita o fusione di ambedue le celebrazioni cultuali, pur differenti nella loro origine. All’epoca, dunque, del nuovo Testamento pasqua ed azimi costituiscono un’unica istituzione cultuale, indicata con l’uno o l’altro nome. Il primogenito (l’agnello pasquale) in cui si concentrano, secondo una concezione semitica, in modo particolare la vita e la forza vitale, assieme alle primizie vegetali (in quanto è il frutto migliore e più prezioso), vi sono oggetti preferiti per il sacrificio, nonché l’oblazione per eccellenza. Con l’uno (l’agnello primogenito) si riconosce il diritto di possesso e la sovranità del Signore sulla terra e sul popolo d’Israele, e con l’altro (primizie vegetali) si consacra e si santifica tutta la famiglia. In questa ritualità la consegna delle primizie appare dunque portatrice e mediatrice di benedizione; essa garantisce felicità e assicura prosperità. Si eseguono perciò le consegne delle primizie volentieri, con letizia e allegria, con la speranza di tanti benefici. L’accento viene qui messo sull’aspetto specificamente impetratorio e propiziatorio. Ma dall’altra parte viene espressa anche l’idea che tanto la persona che offre, quanto Dio che accoglie l’offerta, entrano così in contatto l’uno con l’altra per stringere un rapporto di alleanza. Il sacrificio della pasqua (agnello e vegetali) non è dunque solo un sacrificium, ma ugualmente un sacramentum: esso mette l’offerente orante in contatto (communio) con Dio, e perciò gli procura benedizione, misericordia e salvezza. C’è inoltre il sangue sacrificale (dell’agnello pasquale), come mezzo d’espiazione per eccellenza. L’effetto espiatorio che si attende dal sangue è la purificazione e la remissione dei peccati. Il peccato è considerato qui come un indebolimento, una perdita della forza vitale, cui si può rimediare solo con l’apporto di una nuova vita mediante il rito cruento dell’espiazione (cf. “Senza sangue non c’è riconciliazione”, Zebahim 6a; Joma 5a) : ciò che ” espia ” non è dunque la morte della vittima, ma piuttosto la vita o la forza vitale ottenuta mediante il sangue (con il suo valore energicovitale) sacrificale dell’immolazione. Si tratta in pratica di un rito di riconsacrazione, di rigeneratio e di rinovatio, il che equivale contenutisticamente a un rinnovamento dell’alleanza con valore nettamente catartico. Questo spiega perché la soteriologia pasquale del Nuovo Testamento considera ed indica il sangue eucaristico, nel contesto della pasqua, non solo come sangue dell’alleanza (“nuova alleanza”), ma anche come “sangue per la remissione dei peccati “. Il vino, all’inizio, non doveva far parte del pasto pasquale. Il suo uso nella celebrazione trova la sua giustificazione in un’epoca più tardiva. Il vino, infatti, è un segno caratteristico delle zone agricole, e in modo tutto particolare simbolo della Palestina (Num 13, 23). E’ a partire dall’esperienza di questo territorio che Israele può essere chiamata la vite e la vigna del Signore (Is. 5, 7; Os. 10, 1; ps. 80, 9). Il vino allora illustra e simboleggia il dominio e la presa di possesso della terra promessa. Il vino non solo è usato come dispensatore di forza, di potenza, e come medicina (2Sam. 16, 2; Lc. 10, 34; 1Tim. 5, 23), ma appare anche come simbolo evidente della vita e della speranza di vita. Si attribuisce al vino questa forza vitale soprattutto perché si ritiene sia generatore del sangue; e proprio il sangue è vita. Con questa quasi totale equiparazione, si capisce allora l’uso parallelo del sangue e del vino (di preferenza rosso) nel banchetto pasquale. L’adozione di questo nuovo materiale è legata alla diaspora e alla distruzione del tempio, quando fu eliminato il sacrificio dell’agnello: il grano ed il vino sono così diventati la caratteristica della pasqua giudaica. Nessuna sorpresa che i rabbini abbiano potuto attribuire un valore espiatorio e purificante al vino, analogamente a quanto avviene per il sangue (Gen. 49,11); e bere insieme lo stesso vino o dalla stessa coppa significa partecipare ad un’unica sorte, così come dividere lo stesso cibo con qualcuno vuol dire partecipare alla stessa forza vitale e in un certo senso allo stesso sangue, poiché la comunità conviviale manifesta e attua la comunità di vita. Per questo, patti ed alleanze si concludono e si sigillano ordinariamente in occasione di un pasto o libagione comune. Quello che avviene nei rapporti tra gli uomini, avviene anche nel rapporto con Dio: la stretta comunione.
Il vino è anche considerato dispensatore di gioia per eccellenza: è stato creato per la gioia (Sir. 31, 27 s.), rallegra il cuore dell’uomo (Sal. 104, 15). Ma il vino è per Israele soprattutto simbolo e garanzia della gioia del tempo messianico della fine (cf. il pasto della salvezza escatologica di grasse vivande e di vini prelibati di cui parla Isaia 25,6). Il bere vino nel banchetto pasquale deve dunque esprimere quello stato d’animo festoso e gioioso che si fonda sulla salvezza pasquale passata, presente e futura, come sta scritto: “Tu devi essere lieto nella tua festa” (Deut.16,14). 10 Un molteplice patrimonio teologico si è allora legato con il vino della pasqua giudaica: ricorda con riconoscenza il dono della terra promessa e la salvezza operata da Dio, anticipa la gioia e l’allegria della salvezza escatologica, conserva con sé l’idea di sacrificio in rapporto con l’immagine del sangue, sviluppa l’idea della comunione di alleanza e di destino, promuove l’attesa di una efficace mediazione di vita e di salvezza. Tutti questi motivi e contenuti sono stati di grande contributo per la comprensione che il Nuovo Testamento e i primi cristiani hanno avuto del vino eucaristico.
Il cibarsi di erbe amare faceva anche parte del pasto pasquale: ” Essi devono consumare in questa notte la carne dell’agnello e insieme il pane senza lievito; devono mangiarlo con erbe amare ” (Es.13,8; Num. 9, 11).Questo uso può essere riportato al tempo del nomadismo del popolo ebraico; infatti i pastori, nel deserto, sostituiscono il sale con le erbe amare selvatiche. Inoltre si ritrova in parecchie religioni antiche, specialmente nei riti di primavera, questa tradizione di erbe amare come mezzo di protezione e purificazione. Occorre anche segnalare che il mondo antico egiziano conosce l’uso delle erbe amare nella stipula di contratti e nelle cerimonie di alleanze. Questo ultimo fatto si accorda bene con il carattere di alleanza del banchetto pasquale.
Gli elementi costitutivi della celebrazione pasquale veterotestamentaria-giudaica, oltre all’agnello, sono dunque il pane non lievitato, il vino e le erbe amare. Non è per caso che Gesù sceglie il pane e il vino come simboli del suo corpo (“Questo è il mio corpo”) e del suo sangue (“Questo è il mio sangue della nuova alleanza”): egli è ben consapevole del loro significato. Però, nella pasqua giudaica, il loro nuovo significato teologico, “storicizzato”, è questo: gli azzimi sono considerati “pane di miseria”, e come tali simboleggiano la povertà e la miseria della schiavitù patita sotto il giogo egiziano; sono simbolo dell’improvvisa liberazione, mentre l’Egitto è il simbolo dell’iniquità e della lontananza da Dio, cioè il prototipo dell’uomo senza Dio e malvagio. Il vino è simbolo della terra promessa e della salvezza. La coppa di benedizione, insieme con il pane, sui quali era pronunciata la preghiera di ringraziamento e di lode, sono portatori e mediatori di benedizione per chi li beve o condivide. Le erbe amare, perché gli Egiziani hanno amareggiato la vita dei loro padri, sono simbolo della amarezza e del pentimento per la vita passata, come anche della lotta che l’asceta conduce contro le passioni. Rabbi Gamaliel, maestro di san Paolo, può quindi affermare: “Chiunque a pasqua non parla di queste tre cose, non ha adempiuto la Pasqua, cioè: pasqua, azzimi ed erbe amare…”.
Contenuto e significato della pasqua ebraica
-Il contenuto ed il significato della celebrazione pasquale e di tutti i suoi elementi rituali sono ancora meglio riassunto nelle parole istitutive di Es.12, 14: “Questo giorno deve essere per voi memoriale (eb. lezikk_ rôn, gr. eis mnemosynon), e dovete celebrarlo come una festa per il Signore, dovete celebrarlo come istituito per sempre di generazione in generazione “. questo parallelismo (sinonimico) tra “memoriale” e “festa” equivale ad una identificazione ed è caratteristico della concezione della liturgia presso gli Israeliti: la celebrazione della pasqua è una “liturgia” e una “festa” in quanto essa è un “memoriale”.
La celebrazione della pasqua inoltre non era soltanto una commemorazione, ma apriva i cuori ad una speranza escatologica: sarebbe venuto un giorno nel quale il Signore avrebbe definitivamente liberato il suo popolo da ogni male, con la mediazione di un messia. Dall’altra parte, durante i secoli questa ” grande festa ” aveva assunto i significati religiosi sempre più nuovi e profondi, diventando in un certo modo la sintesi dei prodigi di Dio attraverso la storia di Israele, cioè nel corso del tempo si sono uniti alla pasqua anche diversi avvenimenti della storia della salvezza che sono diventati essi pure oggetto della commemorazione pasquale, ricevendo il carattere di avvenimenti pasquali. E non è azzardato pensare che, come tutti gli Ebrei ferventi, anche Cristo ed i suoi discepoli abbiano vissuto intensamente la festa pasquale in tutte queste sue molteplici risonanze. Un buon esempio di questa teologia pasquale della storia è offerto dall’enumerazione innica delle quattro Grandi Notti della salvezza nel Targum (parafrasi aramaica della Bibbia resasi indispensabile per i Giudei dopo il ritorno dall’esilio; termine di origine ittita che significa “annunciare, spiegare, tradurre”) di Es. 12, 42, testo teologico databile al più tardi alla fine del I° secolo. La notte pasquale è inizialmente una notte di vigilia e predestinata alla liberazione in nome di Yahvé nel momento in cui fa uscire i figli di Israele, liberati dal paese d’Egitto. Ora, quattro notti sono scritte nel Libro delle Memorie, con sei fondamentali azioni di salvezza come avvenimenti pasquali (la creazione del mondo, il patto con Abramo, la nascita di Isacco, il sacrificio di Isacco, l’esodo dall’Egitto e l’avvenimento finale massimo) :
“La prima notte, quando YHWH si manifesta al mondo per crearlo. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso (Gn 1,2). E la parola YHWH era la luce e brillava. Ed egli la chiamò prima Notte. La seconda notte, quando YHWH apparve ad Abramo all’età di cento 12 anni e a sua moglie Sara, all’età di novant’anni (Gn 17, 17) per realizzare ciò che dice la Scrittura: A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire? E Isacco aveva trentasette anni quando fu offerto all’altare. I cieli s’abbassarono e discesero, ed Isacco ne vide le perfezioni e i suoi occhi ne furono accecati. Ed egli la chiamò seconda Notte. La terza notte, quando YHWH apparve agli Egiziani, in mezzo alla nube (Es 12, 29; Sap 18): la sua mano uccise i primogeniti degli Egiziani e la sua destra protesse i primogeniti di Israele, affinchè si compisse ciò che dice la Scrittura: Israele è il mio figlio primogenito (Es 4, 22). Ed egli la chiamò terza Notte. La quarta notte, quando il mondo arriverà alla fine per essere dissolto: le catene saranno spezzate e le generazioni malvagie saranno distrutte e Mosè verrà dal deserto [e il Re Messia verrà dall’alto] alla testa dell’esercito e l’altro marcerà alla testa dell’esercito e la sua parola marcerà in mezzo a loro e io ed essi marceremo insieme. E’ la notte di Pasqua per il nome di YHWH: notte riservata e stabilita per la liberazione di tutto Israele, nel corso delle sue generazioni. ” Questo rilevante elenco degli avvenimenti pasquali non è un caso isolato. Con termini chiari il midrash (esegesi sinagogale e procedimento che mira a spiegare e a illustrare un passo della Scrittura in funzione del tempo presente) storico dei Tannaiti, Seder Olam Rabbas, pone i seguenti avvenimenti nel tempo di pasqua: l’Alleanza con Abramo, l’annuncio della nascita di Isacco insieme all’adempiersi di questa promessa, la teofania della vocazione di Mosè sul Sinai, l’uscita di Israele dall’Egitto, la circoncisione avvenuta sotto Giosuè insieme alla presa di Gerico il 22 di nissan e infine la liberazione di Gerusalemme dal potere di Sennacherib.
Ancora più numerose sono le azioni durante la liturgia pasquale domestica: “durante una pasqua il signore si rivelò ad Abramo (Gen. 15), la sera della vigilia di pasqua egli si fece ospitare da lui (Gen.18), in tempo di pasqua egli distrusse Sodoma e salvò Lot (Gen. 19), sempre in tempo di pasqua fu presa Gerico (Ios. 6), fu vinto Madian (Iud. 7) e Sennacherib fu colpito davanti alle porte di Gerusalemme (2 Re.19); a pasqua morì, in seguito alla minaccia di Daniele, Baltasar (Dan. 5), Ester e gli Israeliti furono liberati dalle insidie di Aman (Esth. 5 s.); e a pasqua infine Dio visiterà “Edom”, per dimostrare in questo modo ancora una volta e definitivamente la sua potenza. ” 13 Con questi diversi avvenimenti della storia dell’Antico Testamento, diventati oggetti della memoria pasquale,la pasqua israelita si è dunque mutata in un compendio e una ricapitolazione di tutta la storia della salvezza. Pasqua, in queste condizioni, non indica solo avvenimenti salvifici del passato – accaduti una volta per sempre, che appartengono ormai definitivamente alla storia, e che un giorno nel futuro, si rinnoveranno e troveranno il loro compimento – ma ha il suo significato nel presente, cioè quello di creare e di portare la salvezza nel momento presente concreto della celebrazione cultuale, ogni anno. Infatti, per essere vivo il presente della salvezza pasquale ha bisogno continuamente di attualizzarsi. Proprio in questo farsi presente, o attualizzarsi, sta il vero senso della celebrazione attuale. Si tratta, come abbiamo detto sopra, di una memoria (Es. 12,14). E “fare memoria” o ricordare una cosa vuol dire renderla presente nell’ “oggi” della celebrazione liturgica. Il significato della celebrazione pasquale anno per anno non si riduce quindi a pura commemorazione, ma viene avvertito come un “oggi” salvifico. Il problema fondamentale è allora di scoprire quale era il valore salvifico che scaturiva da questo memoriale liturgico a favore dei partecipanti, e quale era il suo concreto significato di presente.
I frutti della celebrazione pasquale veterotestamentaria giudaica-
Anzitutto la commemorazione liturgica della pasqua rafforzava sempre di più in coloro che vi partecipavano la fede nella bontà e nella potenza di Dio. Da questo guardare con fede al Signore nasceva spontaneamente la speranza nella sua incrollabile fedeltà e nella sua costante disponibilità all’aiuto. Inoltre, da questa fede e da questa speranza – fondate sulle azioni salvifiche storiche di Dio sintetizzate nella pasqua – era breve il passo all’amore per l’autore di queste meraviglie. Il corollario immediato, per chi ha fede, speranza e amore, è che la sua vita quotidiana diventa totalmente un ” culto spirituale ” a Dio, cioè una “liturgia quotidiana”.
In altre parole: nella pasqua il Signore ha liberato Israele dalla schiavitù egiziana, si è curato di lui in diverse altre occasioni, e lo ha attirato a sé; a motivo o in considerazione di questo agire salvifico di Dio – commemorato nella celebrazione pasquale – anche ogni israelita (celebrante) deve, da parte sua, in risposta alla generosità divina, ” amare il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze ” (Deut.6,5),deve amarlo come servo (Is.42; 49; 50; 52), come figlio e come sposa (cf. Il Cantico 14 dei cantici o Ez.16). Questo amore pieno di fede e di speranza trovava la sua concreta espressione non soltanto nei canti di lode e di ringraziamento – parte essenziale della liturgia pasquale – ma anche e soprattutto nella rinvigorita determinazione di servire il Signore e di osservare fedelmente le leggi dell’alleanza (Deut. 11,1). Il “rituale” deve coincidere con l’“esistenziale”: l’uno è la verità dell’altro. Altro frutto della celebrazione pasquale è l’amore o l’unità tra i membri del popolo di Israele che accresceva e si approfondiva, fondato sulla consapevolezza di un comune destino e sperimentato in una comunione conviviale veramente fraterna: il connazionale acquisiva sempre una più grande dignità e considerazione. La liturgia pasquale risulta dunque, per gli Israeliti, uno dei più efficaci stimoli e impulsi ad amare Dio e il prossimo e ad essere fedele in ogni tempo nel seguire le disposizioni, prescrizioni e comandamenti della Legge. Si può quindi affermare, senza rischi di errore, che il significato presente della celebrazione pasquale veterotestamentaria-giudaica o il frutto più concreto che scaturiva per i partecipanti consisteva nel provocare, destare ed edificare la fede, la speranza e l’amore. Questo dovrebbe anche avvenire nella pasqua cristiana e soprattutto nell’eucaristia, perché essa – analogamente alla celebrazione pasquale – è essenzialmente una anamnesi (Lc22, 19; 1cor.11, 24s) che “ripresenta” – in un’attualizzazione di continuo rinnovata dell’evento della croce redentrice – l’azione salvifica passata. Anche qui, come nella pasqua giudaica non si tratta di un procedimento puramente soggettivo, di un ‘come se’ senza fondamento oggettivo, ma di una attualizzazione o “presentificazione” oggettiva della salvezza pasquale. La liturgia eucaristica appare quindi non come un luogo di didattismo, moralismo o estetismo – le sue derive attuali – , ma come momento per ricevere la grazia di Dio.
Il soggetto del memoriale pasquale e la triplice dimensione anche dell’eucaristia-pasqua cristiana
-Soggetto infatti del memoriale pasquale non è solo il popolo (di Dio), ma Dio stesso, perché il concetto biblico di memoria-zikkaron-anamnesi, che indica la natura della celebrazione, è per principio reciproco. Così in ogni celebrazione pasquale, il popolo fa memoria della salvezza divina e Dio stesso si “ricorda” sia del suo popolo sia delle sue azioni salvifiche compiute un giorno. Ora, il “ricordarsi del Signore” non vuol dire un rammentare puramente soggettivo o un non dimenticare affettivo, ma significa decisamente un intervenire ed un operare-salvezza oggettivo-affettivo, efficace e creatore di realtà hic et nunc. Ricordare a Dio le grandi imprese o azioni del passato è indurlo a ricordarsi del suo popolo, e la salvezza dei primi tempi diventa di nuovo una realtà attuale, per i presenti nel presente, prima dell’evento salvifico della fine (dei tempi). In tal modo è ovvio che la celebrazione rituale della pasqua cristiana, l’eucaristia, si colloca anche tra il suo avvenimento storico e il suo compimento escatologico. Tra l’uno e l’altro sta l’inviolabile fedeltà divina come presenza viva. La celebrazione della pasqua-eucaristia è dunque prevalentemente tridimensionale, cioè è nello stesso tempo memoriale di un evento salvifico avvenuto una volta per sempre nel passato, attualizzazione nel presente della salvezza operata da quello, e visione anticipatrice del suo possesso pieno nel futuro escatologico. Essa dovrebbe, come per la pasqua veterotestamentaria-giudaica, fare nascere, rafforzare e destare la fede, la speranza e l’amore per l’autore della ” salvezza “, nonché promuovere una comunione conviviale veramente fraterna. Poiché l’Eucaristia è evidentemente fonte e culmine della vita e della missione di ogni cristiano.
Don Joseph-Ndoum