Chiamami per nome – un racconto di Giorgio Gibertini
Quella sera del 25 marzo, il vento del Nord pizzicava le mani e il naso, e ogni volta che qualcuno apriva la porta del teatro comunale di Robegano, sembrava che l’inverno volesse infilarsi tra le sedie. Dentro, però, c’era calore: la sala era piena, e si respirava quell’attesa vibrante delle serate belle. Il sindaco mi presentò con grande cura, menzionando il mio libro “Cento domande a Dante e cento risposte“, e io salii sul palco emozionato. Davanti a me, studenti curiosi, insegnanti attenti, genitori sorridenti. Avevo accanto il mio amico Cecco, che mi segue spesso in queste “missioni poetiche”.
Poco prima di entrare, avevo notato un uomo rannicchiato all’angolo dell’ingresso, vicino a un termosifone spento. L’avevo scambiato per un senzatetto in cerca di riparo. Non ci avevo più pensato, concentrato com’ero sull’incontro.
La conferenza andò bene, anzi, benissimo. Parlai di Dante non come un monumento da studiare, ma come un compagno di viaggio per chi è perso nella “selva oscura”. Mentre rispondevo a una domanda sul Canto V dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca, lo vidi entrare. Era lui. Si sedette nell’ultima fila, silenzioso, ma con lo sguardo acceso.
A evento finito, mentre firmavo qualche copia, lo vidi avvicinarsi. Lo anticipai: «Mi spiace, non ho spiccioli…» Ma lui, con voce educata e occhi vivi, rispose: «Non voglio soldi. Vorrei solo il suo libro. L’ho ascoltata tutta la sera. Parla di Dante come se fosse mio fratello. Non posso comprarlo, ma se me lo regala… lo custodirò come si custodisce il pane.»
Mi commosse. Glielo diedi subito, scrivendo una dedica e il mio numero sulla prima pagina. Lessi il suo nome sulla borsa sdrucita: Guido.
«Aspettami fuori, Guido. Solo un attimo, saluto gli ultimi e vengo.»
Quando uscii, era lì, vicino alla mia macchina. Lo invitai con Cecco al bar di fronte, un piccolo locale con le luci basse e l’insegna un po’ sbiadita: Bar Virgilio. Il nome ci fece sorridere. “Proprio qui dovevamo finire”, dissi, e ordinai tre vin brulé per scaldarci.
Guido raccontò la sua storia, senza piangersi addosso. Era stato un uomo con tutto: lavoro, amore, famiglia. Poi un amore sbagliato lo aveva trascinato giù. «Come Paolo e Francesca. “Amor condusse noi ad una morte.” Ma io voglio credere, oggi, che non sia finita lì. Lei ha detto che Dante ci porta alla salvezza. Io ci credo, dottore.»
Parlammo a lungo. Gli dissi che per me la Commedia è un cammino verso la consapevolezza, la felicità e la salvezza, ma per farlo tutti abbiamo bisogno di un amico, di una guida, proprio come Dante ha avuto bisogno di Virgilio, per iniziare.
Guido ascoltava con la fame di chi cerca qualcosa di vero.
«Sa qual è il vero inferno?» mi disse mentre uscivamo. «Quando nessuno ti chiede più come ti chiami.»
Lo abbracciai. Mi ringraziò ancora per il libro. Cecco, accanto a me, sussurrò: «Bel regalo che gli hai fatto. Ma mi sa che stasera il regalo più grande l’ha fatto lui a noi.»
Quella notte, tornando a casa, ripensavo a tutto. A Guido, al bar Virgilio, al cielo limpido del Veneto. Aprii il mio Dante e da dentro cadde un bigliettino:
“Grazie. Finalmente ho capito che il Paradiso comincia quando qualcuno ti offre un caffè – o un vin brulé – chiamandoti per nome.”
Mi venne in mente, allora, un altro momento di luce che Dante descrive nel Purgatorio, quella scena grandiosa, nel canto XXX, quando Beatrice finalmente appare e chiama Dante, per la prima e unica volta in tutta la Commedia, con il suo vero nome:
“Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada.”
Quel nome detto da Beatrice è più di un richiamo: è un’identità restituita, un amore che salva, una ferita che comincia a guarire.
Forse anche per Guido è stato così. Forse, per un attimo, chiamarlo per nome lo ha riportato a sé. Come se avesse sentito, in quella voce, il suono antico della sua dignità.
Ecco, sì. Questo è il senso del mio libro. Questo è Il Centuplo: sapere che anche tra i gradini freddi di un teatro e il vapore di un vin brulé, la speranza può arrivare.
