Le strade della mia città – un racconto di Benedetta Bindi
“Di tutte le arti, l’architettura è quella che più di tutte influenza l’anima, pur se con grande lentezza.” Ernest Dimnet
Fin da quando ero piccola, ho sempre amato passeggiare per le strade della mia città. Tutto mi appariva bellissimo: vicoli, fontane, tetti e palazzi. Abitavamo nel centro di Roma, a Trastevere, un quartiere affollato di turisti, con i locali aperti fino a tarda notte. Se aprivo le finestre della mia camera, sentivo un flusso di voci: dal dialetto romano alla lingua americana, tedesca, inglese, che si mescolavano insieme per comporre quella ninna nanna che mi faceva addormentare. Non era rumore di traffico, era melodia piacevole.
Questo urlava mia madre a mia nonna, quando si lamentava perché non riusciva a dormire.
Litigavano spesso, sempre! Nonna Eugenia era abituata alla campagna, al silenzio. Quando è venuta a vivere da noi, non camminava quasi più, ma la sua testa era rimasta la stessa di quando era giovane. Voleva ancora comandare. Non accettava di stare in città, non le piaceva. Avrebbe voluto che noi ci trasferissimo a vivere da lei in campagna.
I miei non ci pensavano davvero, abitavamo in centotrenta metri quadrati, in pieno centro storico, andavano al lavoro a piedi, pensavano di aver vinto alla lotteria!
Grazie a un amico di mio padre, figlio di industriali, che gli aveva affittato a poche lire quel bene senza prezzo.
Ricordo che già da bambina mi piaceva fare schizzi di case, mi riuscivano bene, mentre le persone per me erano difficili da disegnare. Così mi concentravo sulle porte e le finestre, le coloravo, ci mettevo fiocchi e fiori, pesci; erano molto decorative.
Più delle matite e dei colori, avevo una vera adorazione per i Lego. Mi piaceva costruire, montare, smontare quei mattoncini colorati. Quando ho compiuto nove anni, a maggio, per il mio compleanno, mio padre ha deciso di portare me e la mamma ad Atene. Tra quelle rovine antiche è nato in me il desiderio di costruire qualcosa di straordinario, diverso da qualsiasi altra cosa.
Dopo quel viaggio, infatti, ho iniziato ad appassionarmi a tutte le costruzioni della mia città. Lui era felice che fossi così curiosa; mia madre, invece, la vedeva come una mancanza di concentrazione, e si arrabbiava se le professoresse le dicevano che, più che guardare i libri, io giravo sempre la testa verso la finestra. Eravamo in una grande scuola nel centro città, e dalle aule potevi vedere gli appartamenti vicini. Non ero una guardona, non mi interessavano le persone e cosa facevano, ma i terrazzi, le finestre, gli interni, i controsoffitti, i quadri, l’arredamento. Mi annoiavo a scuola; a volte, già alle medie, accadeva che, invece di entrare nella mia aula, all’ultimo momento, al suono della campanella dell’entrata, scappavo. Le mie amiche mi urlavano: “Giulia, che fai non entri?!” Io le salutavo con un cenno della mano e andavo via. Inventavo che avevo un ragazzo, che mi ero innamorata, non avrebbero capito la mia passione per le costruzioni, il cemento, o semplicemente non mi avrebbero creduto.
C’erano tanti luoghi che non conoscevo nella mia città. Ho iniziato a spostarmi in autobus per scoprire altri palazzi, strade, chiese, monumenti. Arrivavo a casa tardi, a volte alle tre del pomeriggio, quando la pasta era ormai fredda, e la nonna in pensiero. Certe liti con la mamma, le ricordo ancora, mi andava via la voce da quanto urlavo.
Mia madre mi diceva che avevo sangue zingaro nelle vene, a causa di un trisavolo di mio padre. Una storia lunga per la quale, se veniva fuori a qualche cena, i miei litigavano per ore. Alla fine non mentivo mai, le dicevo che non ero andata a scuola, e perché.
Papà le diceva che stavo trovando anche un altro modo di farmi una cultura, che non tu si poteva apprendere stando seduti in classe.
Mamma metteva il muso, litigavano, lei gli diceva che per questo lui era un semplice geometra, mentre lei insegnava alle medie matematica.
Per portare la pace a casa prendevo qualche bel voto a scuola, cosa che non mi rimaneva difficile quando mi impuntavo e tutto tornava normale.
Poi è accaduta una cosa, che in qualche modo ha determinato ciò che sono diventata, o almeno ne ha contribuito.
Al piano di sopra del nostro appartamento viveva Michail Pavlov, un architetto russo.
Io facevo la terza media, quando mi vide in un vicolo, mentre disegnavo concentrata un palazzo su un quaderno. Raccontò ai miei genitori che ero seduta sul gradino di un portone, con uno zaino enorme sulle spalle, un cappello troppo grande per la mia piccola testa, e il quaderno sulle ginocchia. Muovevo il volto su e giù, come fossi a una partita di tennis, mentre disegnavo un dettaglio di un palazzo, gli disse che ero una bambina: “speciale“. Propose di insegnarmi il disegno tecnico, se lo desideravo, quello che adesso si fa al computer o con l’intelligenza artificiale.
Quando me lo dissero, saltai sulla sedia dalla gioia.
Era una domenica mattina quando andai per la prima volta da lui; non avevo mai visto uno studio di un architetto, ero emozionatissima, mi accompagnò mio padre. Non era nel nostro quartiere, ma in periferia, sulla via Casilina, dove si alternavano grandi palazzi fatiscenti ad altri di piccole dimensioni. Mi fece impressione vedere che di tutta la bellezza del mio quartiere, lì non vi fosse la minima traccia. Il suo studio era un loft enorme al primo piano. Le pareti erano celesti, con vari fogli di progetti appiccicati con le puntine, un grande tavolo da disegno era posizionato davanti a una grande finestra a vetri, ed intorno vi erano vari sgabelli. In un angolo c’era una pianta d’interni mezza storta, una poltrona rossa e delle riviste di architettura sul pavimento. Mio padre, che non si fidava ancora di quel signore dall’accento straniero, alto due metri, che viveva da solo e non aveva né moglie né figli, assistette alle mie prime lezioni. Quando ebbe la certezza che fosse un brav’uomo, mi accompagnava sotto il suo portone, e mi attendeva al bar accanto, dove numerosi anziani bivaccano tutto il giorno giocando a carte. Lui non ci faceva nemmeno caso, ordinava il suo Martini e leggeva il suo libro. Cosa tipica di mio padre: assorbire del mondo solo ciò che lo interessava. Talento che gli ho sempre invidiato.
Quando iniziai il Liceo Artistico, disegnavo già come una alunna dell’ultimo anno; Michail era stato un maestro eccezionale, ed io una studentessa modello. Si era affezionato a me, ero la figlia che non aveva mai avuto.
Ricordo che un pomeriggio mi portò a una mostra, avevo sedici anni; in una sala c’erano le foto delle opere di Frank Lloyd Wright. Quel giorno gli dissi che sarei diventata un architetto, lui mi sorrise e mi disse che non ne dubitava. Altra cosa fecero i miei genitori, che non mi presero sul serio. Tuttavia, a quel tempo, l’elenco delle professioni che i miei vedevano appropriate per me includeva la commercialista, perché ero bravissima in matematica, o la musicista, perché suonavo il violoncello come mio nonno da quando avevo sei anni.
Finita la maturità, mi convinsero a fare un provino al conservatorio. A me piaceva suonare, ma non come disegnare i palazzi, le strade, le stazioni. Ho passato l’esame e la vita ha deciso per me. Ho studiato quattro anni al conservatorio. Uscita da lì, suonare il violoncello è stato il mio mestiere per due anni.
A volte però, di notte, sognavo cemento, muri, ponti; al mattino, al risveglio, ero in un bagno di sudore. Avevo spesso dei mal di testa che non mi davano tregua.
Dentro di me, nel profondo, sapevo che non sarei mai guarita da quell’amore assurdo per l’architettura.
A una cena dopo un concerto, uno psichiatra famoso mi disse: “Lei ha un grande talento, ma dal suo volto vedo che quando suona non è felice, lei è chiaramente innamorata di un uomo che la fa soffrire!”
Io, all’epoca, ero già fidanzata con Arturo, l’uomo che poi ho sposato. Non gli ho nemmeno risposto, ma era come se quello sconosciuto mi avesse dato uno specchio e mi avesse detto: “Guardati, sei triste!”
Il mese dopo ho lasciato la musica e mi sono iscritta ad architettura. Ancora prima di laurearmi, lavoravo già con Michail. Lui era invecchiato, aveva settantasei anni, e gli davo una mano a finire alcuni progetti che gli venivano commissionati. La maggior parte delle volte si trattava di ristrutturazione di ville di russi a Forte dei Marmi. Mi pagava bene e mi rimaneva anche tempo per studiare.
Chi soffrì molto per la mia scelta di lasciare la musica fu mia madre, che mi voleva musicista come era stato suo padre.
Anche se per noi donne, intraprendere la carriera di architetto non è facile.
All’università c’erano in media metà studenti e metà studentesse, ma quando è cominciata la professione, le donne sono quasi sparite. Due mie care amiche, di gran talento, o sono diventate collaboratrici dei loro mariti o compagni, o lavorano in grandi studi, dove hanno un ruolo marginale rispetto ai colleghi maschi. Io ho dovuto sacrificare la famiglia, ma sono riuscita a farmi un nome, a firmare i miei progetti. Dio mi ha dato un dono, e non potevo chiuderlo in un cassetto o regalarlo ad altri perché lo facessero passare per proprio. Per fortuna ho avuto un marito che mi ha sempre dato un grande sostegno e mi ha aiutato moltissimo a crescere Anna, nostra figlia, che ora ha sedici anni.
Questa è la storia della mia vita, quella che racconto quando a qualche conferenza mi chiedono quando ho deciso di fare la mia professione. Credo che i no che ho ricevuto mi abbiano reso più perseverante. Avrei potuto gettare la spugna, ritornare a suonare, ma non l’ho fatto perché sapevo che c’era molto da portare alla luce, da scoprire. Ho interpretato ogni no come una mossa, una sfida. Ho lottato per affermare il mio stile, che si è sempre contrapposto a una certa appariscenza tipica di molta architettura contemporanea, ma credo che l’esibizione eccessiva delle forme nasconda, in fondo, un vuoto espressivo. La semplicità di ciò che creo forse risale ai tempi dei Lego, quei mattoncini che mio padre mi metteva tra le mani e, sorridendomi, mi diceva: “Dai Giulia, fammi vedere cosa t’inventi!”, mentre la nonna gli urlava: “Figlio mio, che fai! Sono giochi da maschio! Dagli le bambole, gli fan meglio! Oppure dagli in mano il violoncello!”
Noi ci guardavamo, io sorridevo, lo guardavo, e continuavo a costruire, mentre a lui brillavano gli occhi, io sognavo di renderlo un giorno orgoglioso di me.
Alla fine, dopo anni di lotte e scelte difficili, sono diventata architetto. Non solo per me stessa, ma anche per lui, per mio padre. Ogni progetto che ho firmato, ogni edificio che ha preso forma, in qualche modo l’ho donato a lui.
Ho costruito la carriera che, pur essendo mia, porta dentro di sé un po’ del suo sogno. Il giorno che ha visto il mio primo progetto realizzato, mi ha detto che era felice di vedermi diventare l’architetto che lui l’aveva sempre sperato.
