La telefonata – un racconto di Benedetta Bindi
Il mio telefono ha sempre squillato poco, a differenza di quello dei miei colleghi o della gente che incrocio per strada. Quasi tutti hanno il cellulare attaccato all’orecchio o gli occhi incollati al display. Io, invece, non ho mai considerato molto quel piccolo oggetto nero, che spesso ho dimenticato a casa, soprattutto la mattina quando uscivo per andare in ufficio. Poi ho comprato un laccio da mettere al collo, e così ho risolto il problema.
Non ho mai seguito nemmeno i social. Ho sempre trovato assurdo che molte persone bramino i like, e addirittura ci guadagnino da vivere. Quando è nato Facebook, mi dicevano di iscrivermi, che era utilissimo per contattare gli amici persi nel tempo. Io ne ho solo due fidati, sempre gli stessi dal liceo, e non ho mai desiderato trovarne altri.
I miei colleghi mi hanno spronato a usare le chat, soprattutto da quando sono rimasto solo. Dicono sia il metodo migliore per conoscere donne. A me non è mai riuscito! Ho provato ad accedere a vari siti d’incontri, ma poi mi è mancato sempre il coraggio di andare avanti, di mettere una mia foto, di scrivere di me. Per una sorta di pudore, ho sempre chiuso il portatile.
Nell’ufficio dove lavoravo, alcuni colleghi si sono fidanzati in questo modo. Per primo Luca, con una di Bologna, poi Giacomo, con una signora di Anzio. A lui è andata meglio, sono più vicini. Per questa mia reticenza verso i social, in ufficio mi chiamavano: “Leandro che vive fuori dal mondo”. Io dicevo che in effetti avevano ragione, ci scherzavamo su.
Poi un giorno ho perso il lavoro. Hanno assunto uno più giovane e più qualificato di me, ma ho trovato subito il modo di fare qualcosa. Io non sono mai stato con le mani in mano, e non mi sono mai abbattuto troppo. Credo non ne valga la pena, nonostante tutto la vita mi piace.
Ora vado a pagare le bollette per alcuni anziani, li porto alle visite mediche, ad alcuni addirittura cucino. È tutta gente del mio quartiere. Mi ha aiutato Flavio, il macellaio. Ha sparso la voce che cercavo lavoro, ha garantito per me, conosceva sia mia madre che mio padre. Porto anche la sua carne a domicilio in alcuni ristoranti, in giro per la città. Non è male come vita, guadagno e ho più tempo per me.
La sera, però, non mi sono ancora abituato a tutte quelle ore lunghe e silenziose. Un tempo vivevo con Simona, ma poi mi ha lasciato perché a un certo punto ha detto che mi trovava noioso, che la vita con me era diventata abitudinaria, piatta, che lei aveva bisogno di energia, quella che io le toglievo.
Per questo ora sono contento quando il telefonino squilla. Ultimamente accade spesso, ed è quasi sempre per offerte commerciali. Ma l’altra sera una voce di donna mi ha detto: “Ciao Claudio, come stai? Non sai che mi è successo”.
Non mi ha dato nemmeno il tempo di dirle che non ero colui che cercava, e ha continuato: “Ieri quando te ne sei andato, ho fatto la doccia e sono andata a lavorare. Quando ero in auto, mi si è avvicinato un tipo con il motorino, io avevo il finestrino abbassato, era già caldo alle nove. Avevo la borsa sul sedile, e quello ha messo una mano dentro l’abitacolo e ha afferrato la borsa. Io ho preso in tempo la tracolla, mentre gli urlavo di lasciare la presa. Poi sono sopraggiunte altre auto, e un tipo con il camion, che gli ha suonato. Il ladro è scappato insultandomi. Che paura, non sai, mi sono dovuta accostare un momento al ciglio della strada, mi mancava il respiro. Il tipo con il camion, quello che ha visto la scena e mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa, è stato gentile, era un omone di due metri. Ma ci sei Claudio?!”
Allora io ho risposto: “Sì, ci sono, ma non sono Claudio, mi chiamo Leandro, non mi hai dato il tempo di dirti che avevi sbagliato. In ogni caso mi dispiace per ciò che ti è accaduto”.
Lei ha detto: “Ma che scema che sono, perdonami!” Poi c’è stato un minuto di silenzio, e la tipa, con voce allegra, mi ha detto: “Beh, almeno so come ti chiami!” Ancora silenzio da parte mia: “Hai un nome particolare, esotico direi”.
Era tardo pomeriggio, e a casa mia, senza condizionatore (che mi ero promesso di far aggiustare), era un caldo bestiale. Il sudore mi colava dalla fronte, mi scendeva negli occhi, che mi bruciavano.
“No, no, io sono di Roma, nato a San Giovanni!” ho risposto, e lei è scoppiata in una grossa risata, dicendomi che scherzava. Poi ha ripreso: “Potremmo incontrarci se vuoi? Credo che tu sia un tipo strano, a me piacciono quelli come te. Anche Claudio è strano, l’altra sera era talmente ubriaco che penso mi abbia dato il numero sbagliato!”
Io ho risposto: “Vediamoci domani, ho la giornata libera, il sabato non lavoro, di solito i miei clienti hanno i familiari nel weekend”. Lei mi ha domandato che lavoro facessi, e io a quel punto ho preso tempo, non volevo deluderla. Ho tossito, ho tirato fuori una voce da uomo navigato, e le ho detto: “Un lavoro che risolve tanti cavoli alle persone!”
“Fantastico!”, ha detto lei, sempre con quel tono allegro. Poi ha continuato: “Come ti vestirai domani? Così per riconoscerti. Immagino che tu avrai i jeans e una camicia bianca, dalla voce prevedo che sei un tipo da camicia!”
Io, che porto i pantaloni corti in estate anche la sera, e li tolgo a fine settembre, e non indosso le camicie nemmeno d’inverno, ho risposto: “Certo, metto sempre jeans e camicia!” Non volevo deluderla: “Visto! Lo sapevo”, con un tono euforico, come se avesse risposto esattamente alla domanda di un telequiz.
“Vediamoci a Trastevere, al Bar Piccolo, alle diciannove. Lo conosci?”, io le ho risposto “Ok, certo”. Certo era che non sapevo proprio che bar fosse, ma sapevo che su internet l’avrei trovato.
Poi, prima di attaccare, ha voluto dirmi: “Mi metterò un vestito a fiori celesti, è molto corto perché praticamente ci sono cresciuta dentro! Mi piace troppo però, e ogni estate lo tiro fuori. Poi penso che indosserò gli stivali e un cappello. Oh, mi chiamo Emilia, e ho i capelli castani e lunghi. Tu fammi immaginare… Corti e neri?”.
Ho mentito di nuovo, ho detto: “Sì”. Allora lei ha detto: “Wahoo! Sono troppo forte!”.
Il giorno dopo sono andato a comprarmi un bel paio di jeans e a tagliarmi i capelli. Dal parrucchiere ho chiesto di usare qualche prodotto che mi coprisse i bianchi, che ultimamente stanno espugnando i neri, in una battaglia che sanno già di vincere.
Tornato a casa, mi sono guardato allo specchio e non ero male. Poi mi sono steso tutto il pomeriggio sul divano a leggere, con il ventilatore acceso, perché si moriva di caldo, e tremavo all’idea di indossare camicia e jeans. Nonostante questo, mi sentivo euforico, come non lo ero più da tempo. Poi ho fatto la doccia, mi sono vestito e sono uscito.
Arrivato al bar, mi sono seduto a un tavolino centrale. Dopo dieci minuti, lei è arrivata. L’ho riconosciuta subito, perché era vestita esattamente come mi aveva detto. Le ho guardato il seno, non perché sia un maniaco, ma perché era grande, ed era inevitabile che mi ci cadesse l’occhio. Forse per questo il vestito era corto, tutto lo spazio l’aveva occupato lui. E ho collegato la sua frase: “Ci sono cresciuta dentro”. Le sue gambe erano snelle, ed era alta circa come me, che sono 1.78.
Era una ragazza bella, troppo bella e troppo giovane per un ultracinquantenne, che non ha il macchinone né la villa al mare. Quando è arrivato il cameriere, ho ordinato una birra. Intorno a me erano tutti ragazzi, tranne una coppia di stranieri, che beveva allegramente.
Emilia osservava ogni tavolo. Poi i suoi occhi sono caduti dentro i miei, ma solo per pochi secondi, forse due. Lei ha subito cercato altro. Non immaginava certo un tipo con le rughe ad attenderla.
Lei ha gli occhi grandi, chiari e tristi come i miei. Ho pensato che saremmo stati una bella coppia, se fossi stato più giovane.
Poi è arrivata una moto, ha parcheggiato proprio accanto a lei. Un tipo è sceso e si è tolto il casco. Era un ragazzo, tra i venticinque e i trent’anni, più o meno avevano la stessa età. Era abbronzato, aveva tatuato un serpente sul braccio muscoloso. Lui non portava la camicia, ma una maglietta nera e dei pantaloncini da mare.
Ho visto il volto di Emilia illuminarsi, come una bimba davanti al luna park. Gli ha detto: “Claudio! Ma che cavolo, perché non mi hai chiamato? Mi hai anche dato un numero sbagliato!”. Lui ha borbottato qualcosa, ma a voce bassa. Arrivava gente, e aumentavano le voci, però ho potuto sentire che le ha detto: “Aspetti qualcuno?”, e le ha cinto la schiena.
Emilia non ha risposto, e gli sorrideva contenta. Il ragazzo allora l’ha baciata.
Il battito del mio cuore ha accelerato, ho chiuso gli occhi, come se fossi stato accecato dal sole, poi ho bevuto d’un fiato tutta la birra. Mi sono alzato deluso, per andare a pagare, poi mi sono avvicinato a lei, era vicino all’entrata. Le ho sfiorato la spalla, ma scherzava con il ragazzo, non si è accorta di me.
Da vicino toglie il fiato, ho potuto sentire il suo profumo, un misto di mandarino e cedro. E ho guardato i suoi denti bianchi, tutti allineati come una squadra di calcio prima della partita.
Sulla strada verso casa mi ha squillato il telefono, ho tremato pensando che magari avesse litigato con il tipo, ma è apparso “numero sconosciuto”, e ho risposto con voce triste: “Pronto?”. Ho sentito rumori di sottofondo, e poi: “Salve! Mi chiamo Carla, ho un’ottima proposta da farle per una macchina del caffè, le interessa?”.
Visto che mi serviva parlare con qualcuno, le ho detto: “Sì, mi interessa”. Poi, mentre lei parlava, mi sono affacciato a una vetrina di un negozio, mi sono visto riflesso. Non ero male in camicia, non ho nemmeno un accenno di pancia, e ho ancora belle spalle. La commessa vicino alla porta d’ingresso mi ha sorriso ammiccante, ho ricambiato, subito mi ha detto: “Dentro abbiamo molte offerte, perché non entra a guardare?”. Non ho risposto, e sono andato via.
Sono passato davanti a una gelateria, la mia preferita. Mi è venuta voglia di zabaione e cioccolato, e sono entrato. Quella sera, davanti a un bel film e alla mia coppa di gelato, mi sono sentito felice, anche se nel frattempo mi era rimasto l’odore di Emilia, quel misto di mandarino e cedro, e il suo sorriso.
