cultura

La tecnologia deve andare avanti?

Dopo il post su Fabriano, sono rimasto sorpreso da come molti abbiano liquidato la notizia della fine della produzione della risma Fabriano Copy 2 con la frase: “La tecnologia deve andare avanti.” Una frase che sembra sancire un’accettazione quasi passiva del progresso tecnologico come inevitabile e giusto a prescindere, senza però una riflessione più profonda sulle conseguenze culturali e simboliche che certi cambiamenti portano con sé.

Dietro questa frase si nasconde una visione inquietante, dove ogni tradizione, ogni oggetto, ogni pratica culturale sembra poter essere sacrificata sull’altare dell’innovazione, vissuta come inevitabile e non negoziabile. Ciò che scompare non viene considerato un’opportunità persa o un pezzo di memoria abbandonato, ma soltanto un passaggio obbligato verso un progresso idealizzato.

Altrettanto curioso è stato leggere i commenti che celebravano la fine della produzione con frasi come “Gli alberi ringraziano.” È evidente che ci sia una crescente sensibilità ecologica, ed è giusto che ogni azione sia valutata anche alla luce del suo impatto ambientale. Tuttavia, viene da chiedersi se la smaterializzazione digitale rappresenti davvero un’ecologia concreta o solo una nuova illusione: quanta energia, infatti, consumano i dispositivi che ci permettono di vivere nel digitale, dalla produzione alla dismissione dei device, ai server sempre accesi che gestiscono i nostri dati?

La risma Fabriano non era solo carta. Era il punto di partenza per progetti scolastici, per le bozze di scrittori, architetti e studenti; era il supporto che materializzava le idee in potenza. La sua dismissione segna non solo la fine di un prodotto, ma la sparizione di un’abitudine culturale. Chiunque abbia usato carta Fabriano per scrivere o creare sa che essa non rappresentava solo funzionalità, ma anche una connessione con un ritmo più lento e umano, contrapposto all’efficienza fredda dei byte e dei pixel.

Viviamo in un tempo di smaterializzazione, dove meno oggetti fisici significano meno connessione con il reale. La carta, e tutto ciò che è tangibile, viene rimpiazzato da superfici digitali, immateriali, più comode ma spesso prive di anima. In questo passaggio si perde il legame che il tatto, l’odore e il peso degli oggetti hanno con la nostra esperienza umana, così unica e autentica.

Penso alla vista dell’ultima risma Fabriano prodotta, probabilmente ancora perfetta nella sua geometria e impeccabile nel bianco delle sue pagine. Quell’immagine, che un tempo avremmo ignorato con disinvoltura, oggi diventa il simbolo struggente di una tradizione che sfuma nel passato, come un libro lasciato a metà o una porta che si chiude lentamente. Non sarà mai più così: niente sostituirà davvero quella connessione fisica e immediata tra la mano e l’idea, tra il foglio e il sogno.

La tecnologia non dovrebbe sopraffarci, ma essere uno strumento al nostro servizio. Non possiamo né dobbiamo abbandonare tutto ciò che appartiene al passato ogni volta che qualcosa di nuovo si affaccia all’orizzonte. Trovare un equilibrio tra progresso e memoria, tra digitale e analogico, significa riflettere su cosa portare con noi lungo la strada e cosa abbandonare, per non rischiare di perdere noi stessi inseguendo il movimento fine a sé stesso.

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