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Africa: terra in cui lasciare

Da quando frequento l’Africa, ho capito una serie di cose: primo scrivere su quella terra senza scadere in noiosi e stucchevoli moralismi è difficilissimo, secondo io in Africa posso andarci solo come sanitaria e non come turista, terzo appena atterri senti il richiamo del luogo da dove tutto è cominciato, quarto quando invece ti imbarchi per tornare a casa ti assale il mal d’Africa o, peggio il mal d’africani.

A chi interessato, provo a raccontare questa particolare storia d’amore.

Prima della nascita di mio figlio Leonardo, sono stata a lavorare per un mese all’anno e per sette anni filati in un ospedale in Ghana, a due ore dalla capitale Accra, sulle rive del fiume Volta dentro una missione di padri comboniani con i miei amici chirurghi del Niguarda. E’ stato questo il mio primo incontro professionale con quella terra magica e sebbene sia passato un po’ di tempo, ricordo bene il lavoro quotidiano in sala operatoria per poter operare il numero maggiore di pazienti nel tempo a nostra disposizione. Ricordo la povertà dei mezzi, l’entusiasmo degli infermieri locali, il nostro spirito di gruppo. Ricordo interventi lunghi e complicati senza la possibilità di trasfondere o di fare affidamento su una terapia intensiva. Ricordo infinite discussioni sulla presenza di infezioni e poi sulla scelta degli unici due antibiotici disponibili. Ricordo i volti di persone che per farsi operare dai bianchi, erano disposte a lasciare il villaggio, camminare per oltre 20 km e accettare una anestesia generale da perfetti sconosciuti. Nei loro occhi paura, fiducia, affidamento, stoicismo. Ricordo i blackout elettrici con il ventilatore che procedeva solo con qualche pugno (del resto era un modello “manuale”), i serpenti tra le bombole di ossigeno ed i nostri attacchi di diarrea intervallati da cestini pieni di leccornie. Ma soprattutto di quella lunga esperienza in sala operatoria dai comboniani del Ghana ricordo il dolore che mi stringeva il petto quando nell’ultimo giorno dovevamo chiudere la sala operatoria e salutare tutti. A me sembrava sempre di non finire, di non incidere, di non facilitare alcun cambiamento, di venir via lasciando là tutto uguale con in più nel cuore una serie di pesanti consapevolezze circa le nostre fortune, scontate, sfacciate, ostentate (a qualcuno di noi è chiaro che avere i soldi per acquistare la Tachipirina sotto casa si chiama privilegio?). Quando il pick up partiva per riportarmi in aeroporto, piangevo sempre: a me sembrava di tradirli e di abbandonarli. Quanto fatto mi sembrava, altro che goccia nell’oceano…mi sembrava talmente effimero da rimuginarci sopra per giorni a casa. La gioia si trasformava spesso e tanto in frustrazione. Restavo umile ma cercavo un modo migliore per aiutare l’Africa a crescere…almeno nel mio campo, nel mio piccolo.

Diventando vecchia (ormai vedo i 50…) mi sono data delle regole per le mie successive partenze come evitare moti di compassione occidentale (cerco di non portare mai caramelle), andare sempre con una equipe autonoma e formata, fare il mio lavoro e niente di meno ricreando degli standard di sicurezza per cui pure la mia famiglia si farebbe operare in una delle mie sale operatorie africane.

Nel 2021 con il figlio ormai grande (10 anni sono sufficienti per capire che la mamma non riesce a non prendersi cura degli altri, anche quando lontani) ho ripreso a viaggiare per lavoro, sono  partita al volo con la Protezione Civile Italiana ed ho raggiunto l’ospedale di Emergency a FreeTown in Sierra Leone per collaborare alla gestione di una maxi emergenza: uno scoppio di cisterna aveva provocato 320 vittime di cui la metà morta sulla scena e l’altra metà da ospedalizzare e curare. Grazie a Samuele, medico director di Emergency in Sierra Leone, ho imparato altro sul continente e sul giusto approccio: un costante rigore che si declina come essere sempre in grado di sapere, saper fare e saper essere più un indiscutibile lavoro di squadra ove siano chiari i ruoli. L’esperienza in Sierra Leone mi ha permesso di iniziare a pensare che sia possibile contaminare, insegnare attraverso una condivisione totale che passa anche dallo studio, dal rispetto e dalla comprensione di ritmi, di pensieri, di sogni e di realtà molto diversi dai nostri.

Ed infine l’Uganda, quest’anno a Novembre. L’occasione è stata magica e virtuosa: in Uganda, presso la località Kalongo a 14 ore di auto dall’aeroporto in un luogo moltissimo suggestivo e remoto, c’è una missione sempre comboniana con al suo interno una scuola per bimbi/ragazzi, un corso per diploma in ostetricia, un ospedale con oltre 200 posti letto, una piccola struttura riabilitativa. L’ospedale è gestito da una collaborazione ultra decennale tra la Fondazione Ambrosoli (il fondatore di tutto è Beato Padre Giuseppe Ambrosoli medico e missionario) ed il governo dell’Uganda. L’ospedale dalla sua nascita è cresciuto, è stato esempio di filantropia e dedizione, ha attraversato la guerra civile e diverse difficoltà ma sempre con le parole del beato fondatore: tutto deve essere fatto con umiltà ed amore. Da qualche tempo, l’ospedale e la Fondazione Ambrosoli hanno deciso di investire molto sulla formazione e per questo è partito un progetto tra la scuola di specialità di Milano in Medicina d’Urgenza e l’ospedale. In pratica, gli specializzandi che lo desiderano hanno la possibilità di recarsi per un periodo di tre mesi in Uganda per fare un pezzo del loro percorso formativo in un ambiente così speciale ove possano imparare, insegnare, crescere. Nell’ambito di questo progetto è nata la richiesta a noi specialisti in anestesia e rianimazione del Niguarda di collaborare per creare una Terapia Intensiva all’interno del Padre Ambrosoli Memorial Hospital. Inutile dire che la richiesta è stata colta subito con entusiasmo e la macchina organizzativa si è accesa nell’estate del 2024: il mio gruppo di lavoro ha dato il suo benestare, l’ospedale pure, le famiglie anche e a settembre abbiamo identificato l’equipe formata da due rianimatrici (me e Francesca) e da due infermiere (Karol e Francesca), con quattro personalità diverse ma unite da un profondo legame professionale fatto di stima ed affetto (oltre che di notti e festivi condivisi insieme in reparto da diversi anni).

Abbiamo coinvolto amici con un found raising che ha fatto invidia alle multi nazionali più quotate. Abbiamo soprattutto raccolto i bisogni e chiesto ai sanitari ugandesi cosa volessero da noi, come potevamo essere utili. Abbiamo censito le risorse, accolto i bisogni e poi organizzato un train formativo con fad a settembre ed ottobre, poi lezioni in presenza ogni giorno del periodo in cui ci siamo recati da loro e di nuovo fad fino alla primavera 2025.

E per me è stata la svolta: ecco cosa si può fare e lasciare in Africa, la formazione.

Immagino che molti filantropi avessero capito questa cosa molto prima di me ma viverla sulla propria pelle, ingaggiarsi preparando lezioni in inglese, studiare e fare diapositive, ascoltare domande cercando di essere sempre all’altezza è un’altra cosa. Durante la nostra settimana a Kalongo abbiamo parlato di parametri vitali, di attrezzature da rianimazione, di manovre di nursing, di sedazione ed analgesia, di traumi, di ustioni. Abbiamo raccontato, condiviso, messo a disposizione tutto quanto sapessimo. Ci abbiamo messo il cuore che è voluto dire stare in piedi fino alle 2 del mattino per preparare lezioni “giuste” ed affrontare diarree impegnative pur di esserci, pur di fare. Abbiamo fatto tutto in punta di piedi perché non c’è un migliore ed un peggiore ma c’è solo un fai con ciò che hai. Abbiamo dato e abbiamo ricevuto: interesse, scambio, fiducia, stima, sorrisi. Indicibile la ricchezza della ripartenza anche perché il progetto continua: torneremo là in primavera con altre lezioni e poi a novembre per festeggiare il primo compleanno della nuova nata Terapia Intensiva di Kalongo.

E finalmente, per la prima volta, il mio cuore è ripartito per l’Italia senza sanguinare.

[http://www.fondazioneambrosoli.it]

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