Quel giorno che ho detto: “ma tu vuoi guarire?” – un racconto di Benedetta Bindi
Spesso lamentarci ci viene naturale, più che vivere la vita. Lo pensavo mentre Marta seduta alla scrivania vicino alla mia, mi elencava le cose della sua esistenza che le andavano storte. Io quel giorno ero particolarmente restia a volerla ascoltare, per un unico motivo: ero felice.
Lei fa parte di quella schiera di persone che si mettono davanti a te, nel momento esatto nel quale il sole ti colpisce! Quelli che pensano: ”ehi sei contenta? ma che cavolo, non è possibile, la mia vita è un disastro!”
Ero allegra per più di un motivo: stavo per andare in ferie, avrei trascorso il Natale con la mia famiglia e mio fratello che non vedevo da mesi, con gli zii e le mie cugine. Ero finalmente assunta a tempo indeterminato, dopo anni di precariato. Invece la mia collega continuava a lamentarsi senza sosta, lei sempre con quel viso cupo e le mascelle serrate. Io ho cercato d’ interromperla, dicendo che il solo fatto di non andare in ufficio, rimanere a casa a leggere un libro, o andare al cinema di pomeriggio come le piaceva fare con un’amica, poteva essere una cosa bella. Lei invece mi ha risposto con quel tono severo che la contraddistingue:
“Loredana tu non capisci! Ho dei parenti terrificanti, con i quali devo trascorrere la vigilia di Natale, e fargli il regalo! Da anni lavoro troppo per quello che guadagno! Questo mese ho la rata della macchina da pagare, il conto dal dentista, il mobile del bagno da comprare. Mio figlio non studia più come prima, non parla mai e guarda sempre quel dannato telefono, il mio ex marito posta foto di lui con amici, amiche, come fosse un adolescente, e la mia colite non mi dà tregua Io non ce la faccio a fare come fai tu, a stamparmi ogni mattina un bel sorriso sulla faccia. Gira voce che l’ha notato a anche il nostro capo la tua allegria. Tra poco vedrai, quella iena ti darà una promozione! Voi giovani e belle, avete le porte aperte !
A quel punto ho capito dove voleva andare a parare! Mi sono trattenuta da non buttarle per terra tutti quei ninnoli che teneva sulla scrivania, e urlarle che io ero stata assunta perché il mio curriculum era buono, che il nostro capo apprezza il mio operato, non il mio aspetto. Volevo urlare che le persone che si lamentano costantemente della loro cattiva sorte, stanno solo raccogliendo le conseguenze della loro stessa negligenza, mancanza di applicazione! Lo vedevo come lavorava, svolgeva in tre ore pratiche che io facevo in mezz’ora! Perché guardava i social, si metteva di nascosto lo smalto, andava a bere il caffè e tornava dopo dieci minuti! Suo marito magari l’aveva mollata perché non puoi vivere ogni giorno dentro un lamento! E suo figlio esasperato aveva scelto il silenzio !
Mi sono detta: “respira , pensa, respira!” Ero entrata da otto mesi in azienda, non potevo buttare tutto all’aria, per una lite provocata da una persona che stava rinunciando a vivere. Ho sentito come una voce che mi suggeriva, che la mia collega era esattamente come il paralitico del vangelo, quello della Piscina di Betzaeta. Una credenza popolare affermava che un angelo scendesse dal cielo per agitare l’acqua, e che chi fosse entrato per primo ne sarebbe uscito guarito. Giovanni lo descrive bene: “A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici” (Gv 5:1-3)
Il Vangelo racconta che un uomo da 38 anni viveva steso al bordo di questa piscina. Non si sapeva da quanto fosse paralitico, né se fosse malato a causa dei suoi eccessi, e forse dei suoi peccati. Gesù non si fa tanti scrupoli, vuole conoscerlo, non capisce come si possa credere alla superstizione per così tanto tempo. Gli pone una domanda semplice : «Vuoi guarire?»
Ecco mi sono detta, invece di fare una scenata, farò come Gesù. Mi sono messa in piedi davanti alla mia collega, con le mani sui fianchi, lo sguardo serio e la voce ferma, e le ho detto :“Ma tu vuoi guarire?!
Lei mi ha guardato ed è rimasta zitta. Mi aveva visto sempre calma, silenziosa, e non si aspettava da me tale reazione.
Il paralitico fa come lei nei Vangeli, non risponde in un primo momento. Non riconosce il suo desiderio di guarigione, ma sposta l’attenzione alle circostanze contrarie e alle aspettative deluse. Come la mia collega! Nella sua testa, l’unico modo per essere guarito era che qualcuno lo immergesse nella piscina. Ha davanti a sé il Figlio di Dio, il suo creatore e salvatore che può tutto, ma nella piccolezza del suo cuore, si chiude nella solitudine e nell’ invidia:
«Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Non risponde alla domanda di Gesù («Vuoi guarire?») ma dice semplicemente che non ha nessuno, e poi si paragona agli altri che lo precedono sempre.
Il paralitico è un classico caso di vittimismo, come Marta lo è!
Quando è che mi sento vittima? Quando non credo più alla mia libertà, quando scarico tutte le mie disgrazie sulle circostanze e sugli altri, e quando perdo la speranza di poter ricevere qualcosa di bello e scegliere qualcosa di buono.
Il bello di questo incontro fra lui e l’uomo malato è che Gesù va oltre la risposta che dà l’uomo, e nonostante queste resistenze, gli offre la guarigione. E lo fa con un comando molto chiaro: «Alzati, prendi la tua barella e cammina. E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare».
“Voglio veramente cambiare?”
Anch’io mi sono posta questa domanda quando ho avuto amori sbagliati, o non trovavo un lavoro decente e mi dicevo che ero sfortunata. Non sempre, ma spesso non vogliamo noi stessi, lasciare l’amarezza, l’ansia, la paura, il dolore e affrontare il mare, e il deserto della vita.
La mia collega dopo poco è esplosa, e mi ha urlato: “Ma sei seria? Cosa vuoi da me ? Vedrai quando ti arriveranno i guai che ho io, perché invecchiando arrivano a tutti, quel sorriso che hai stampato sul volto si modificherà in urlo. Quelle come te non hanno mai affrontato un vero problema, io ci sono nata tra i problemi! Povera stupida! Ora hai fortuna perché sei bella, ma poi le rughe cospargeranno il tuo viso come ghirlande sull’albero di Natale, e il tuo sedere sodo diventerà un uovo al padellino, e tuo marito non si accontenterà di mele mosce, allora sì smetterai di ridere e di fare la morale agli altri”!
Alle scrivanie intorno era calato il silenzio, qualcuno mi ha fatto un cenno con gli occhi come a dire: “è matta”. Io non le ho detto nulla, le ho dato le spalle, e mi sono rimessa alla mia postazione a lavorare, prima che arrivasse il capo. Per quattro mesi non ci siamo più parlate. Per fortuna adesso mi hanno trasferito al quinto piano, non perché ho ventiquattro denti belli bianchi, e il sedere sodo ma perché parlo bene il tedesco e ora l’azienda si è fusa con una ditta di Monaco.
Questa discussione con la mia collega, mi ha ricordato che ognuno di noi ha: “la sua piscina”.
Questa può essere un fidanzato, un genitore, un legame frustrante ma insostituibile, un modo di vivere. Noi dobbiamo sconfiggere ogni atteggiamento che ci tiene aggrappati a sicurezze fittizie, e non ci permette di sperimentare l’ignoto.
Se non si crede che le cose possano cambiare, le cose non cambiano, anzi peggiorano. Io l’ho vissuto sulla mia pelle. Il paralitico è diventato un uomo libero, non solo perché ha potuto camminare, ma perché ha avuto fede e ha avuto il coraggio di rispondere:” voglio guarire“.
Anche oggi fra milioni di persone il Signore viene a vedere me, viene a vedere te.