Ti detestavo – un racconto di Benedetta Bindi
“La vita è davvero conosciuta solo per coloro che soffrono, perdonano, sopportano le avversità” Anais Nin
Per anni ho detestato mia madre! Suona strano a chi lo ascolta, una nota storta durante una ballata.
Eppure l’ho pensato per ore, giorni, la sera prima di addormentarmi guardando le pareti del luogo nel quale mi aveva lasciata. Io ho creduto che il suo amore per me avesse perso la memoria, per questo la detestavo .
Detestare implica una distanza, e quella che aveva messo tra noi era tanta.
Lei nel nostro appartamento, io in una casa famiglia, era come essere separate da un oceano.
Prima di lasciarmi in quell’edificio giallo, circondato da una folta vegetazione, mia madre non mi ha detto ti voglio bene, ma: “Ludovica non farmi il broncio, è la cosa giusta da fare”, poi mi ha dato un bacio in testa si è girata ed è andata via.
“Abbandonare una figlia? Giusto?” L’ ho pensato subito osservandola allontanarsi da me con la sua camminata zoppicante, perché è nata con una gamba più corta dell’altra. Come mi ci sarei appiccicata al suo debole arto, a quell’essere gracile che era mia madre. Mentre stringevo la mano della Suora che mi portava nella mia stanza insieme ad altre bambine, mi pareva di entrare nell’inferno, come pelle bianca sotto il sole, tutto quel dolore bruciava.
Mio padre era morto da due anni per una malattia che in breve l’ha portato a miglior vita, i soldi erano pochi, e mia madre lavorando tutto il giorno non sapeva a chi lasciarmi. Questa era la versione ufficiale.
La verità è che la mancanza di mio padre l’aveva resa debole, sempre più depressa, veniva licenziata da ogni posto di lavoro, tanto non ci stava con la testa. Alcune mattine non riuscivo a svegliarla, e passavo il tempo a disegnare in cucina invece che andare all’asilo, i miei pasti erano a base di latte e biscotti perché molte volte non riusciva ad alzarsi dal letto. Le pasticche, che il medico le prescriveva, circondavano la sua stanza come addobbi di Natale. Mi capitava di dirle di prenderle ma lei mi rispondeva: “Quella è porcheria ti ammazza più di questa vita, tuo padre lo riempivano di pasticche e infatti adesso è sotto terra”.
Lui non lo ricordo, avevo tre anni quando se ne è andato, in ogni caso lei me ne parlava come fossi un adulto, e l’idea di avere un papà sotto terra mi angosciava moltissimo. Ho passato notti insonni a immaginarlo coperto dai vermi. Tante volte la mamma non si rendeva conto di cosa diceva, la depressione è una tragedia, se non curata porta anche alla morte. Mi ci è voluto del tempo per capirlo.
Viste le sue condizioni, la casa famiglia è stata l’unica soluzione possibile, tanto se non mi ci portava lei, presto mi ci avrebbero portato i servizi sociali.
Solo anni dopo ho realizzato che è stata la cosa più saggia che mia madre potesse fare. Suor Teresa mi ha dato un’istruzione adeguata, insieme alle maestre hanno contribuito a fare di me la donna che sono. Eppure per molto tempo, anche quando sono tornata a vivere con mia madre, non riuscivo a perdonarla. Una parte di me diceva: “poverina è rimasta sola con una figlia piccola, ha accudito il marito per sette mesi strazianti, ci sono voluti anni per uscire dal tunnel della depressione, è normale”. L’altra Ludovica, che sarei io, diceva: “che mamma debole, invece di curarsi ti ha schiaffato nella casa famiglia”.
Adesso sono grande, da quattro anni vivo con un compagno, l’altra sera sono andata a casa di mia madre perché mi ha chiamato, di solito vado di rado a farle visita.
Io ho le chiavi del suo appartamento. Sono entrata in casa, e l’ho trovata a dormire sulla poltrona di velluto verde, ho visto il suo gracile corpo e mi sembrava un oggetto lasciato cadere. In quel momento mi è parso di avere un branco di elefanti che passeggiavano sul mio cuore. Non riuscivo più a fare la dura.
Mi sono seduta accanto a lei per vedere se si svegliava, invece rimaneva con gli occhi chiusi e il volto rivolto verso il basso. I capelli erano tirati indietro in una piccola cipolla, una molletta da bambina con una farfalla sul lato destro della testa le teneva su una ciocca di capelli, e una collana d’oro con una Madonnina in preghiera le pendeva dal collo.
Era il momento giusto per capire se l’avevo perdonata, e visto che le mie cicatrici ora sono diventate medaglie, mi sono detta: “Fallo! Di tempo rimasto è poco”.
Le ho accarezzato il volto e lei ha aperto gli occhi, ho notato che si era anche truccata per l’occasione. Sorridendomi mi ha detto: “sapevo che saresti venuta”. Io ho fatto una smorfia, non volevo darle troppa soddisfazione. Poco dopo le ho domandato: “allora cosa accade di grave?” Lei ha preso una busta da terra e mi ha detto: “tieni”. Dentro c’era un maglione celeste. La sua voce ha tremato quando mi ha domandato: ”La misura va bene? L’ho fatto io ”.
L’ho guardato ed ho detto: “bello!” con una certa freddezza.
Ultimamente le sue mani hanno iniziato a tremare, primi segni del parkinson, ma lei era comunque riuscita a terminare il pullover. Per la prima volta ho parlato con lei del mio lavoro, dei complimenti che mi ha fatto il Preside dell’asilo dove insegno, perché tutte le mamme sono felici di me. Mia madre seduta su quella poltrona verde mi guardava e sorrideva, era così felice come se le stessi raccontando una barzelletta. Sorridere è una cosa che non gli è mai appartenuta, come non gli è mai appartenuto un gesto d’affetto, o una frase dolce.
Così mi è venuto spontaneo ad un certo punto avvicinarmi, e abbracciarla con delicatezza, come se avessi paura di romperla.
In quel gesto c’era tutto il dolore, la rabbia, il perdono, ed infine l’amore.
Le ho detto: “Grazie”. Dirle ti voglio bene mi sembrava eccessivo. Mi sono tolta il mio golf, e con esso tutto il rancore che mi era rimasto, e ho indossato quello celeste che lei mi aveva fatto. Guardandomi allo specchio del tinello le ho detto: “come sto?”, lei si è alzata lentamente, mi è venuta vicino, mi ha messo meglio la manica sinistra, girandola un poco, poi mi ha accarezzato la schiena, e ha detto: “sei bellissima!”
In quel momento per la prima volta ho avuto la consapevolezza di avere anch’io una madre.