Quel giorno che ti ho perdonato – un racconto di Benedetta Bindi
“Ognuno di noi perdona in proporzione alla capacità di amare”.François de La Rochefoucauld
Mio figlio l’aveva fatta troppo grossa, insieme ad un amico avevano cercato di rubare un motorino, ed erano stati scoperti da un carabiniere in borghese.
Io ero stanco, stanchissimo di lui. Mia moglie ormai prendeva delle gocce per dormire, tanto era preoccupata. Tutto quello che un adolescente poteva combinare, mio figlio l’aveva fatto: si era picchiato fuori da un locale, era svenuto ad una festa tanto aveva bevuto, arrivata l’ambulanza gli amici mi avevano chiamato. Era stato sospeso per aver discusso animatamente con una supplente, e a giugno a causa della sua condotta era stato bocciato. A casa dava risposte secche e volgari a Davide, suo fratello minore, tra di loro erano liti continue. Io e mia moglie cercavamo di instaurare un dialogo con lui ma era difficile, ai nostri rimproveri rispondeva con lunghi silenzi, abbassava la testa e guardava il display del cellulare. Era sempre ombroso, mangiava in silenzio e poi spariva nella sua camera per ore. Usciva e non diceva dove andava, rispondeva sempre: ”in giro”, l’unica cosa positiva era che rispettava gli orari imposti.
Amici a casa ne portava pochi, una volta abbiamo criticato un certo Samuel, eravamo a cena e ho detto: “cavolo ma così giovane e già tatuato sulle braccia e sul collo, e poi dai doppi cerchi a ciascun orecchio. A casa sua gli permettono tutto!”
Mio figlio è rimasto male, ci ha risposto che eravamo piccoli borghesi e da quel giorno non ci ha fatto conoscere più nessuno. Ragazze forse ne aveva, ma se provavo ad indagare mi rispondeva secco: “pà sono affari miei”. Io avevo provato a suggerirgli di parlare con uno psicoterapeuta, ma lui non ne voleva sapere. Quando gli ho detto di incontrare Don Luigi, un giovane prete amico di un mio collega, con il quale giocavo a calcetto, mi ha riso in faccia, poi ha detto: “Parlaci tu, io che devo dirgli a un prete? Quello mi fa una ramanzina peggio delle vostre”.
Il pomeriggio che ho dovuto recuperare mio figlio alla caserma dei Carabinieri dopo il tentato furto, era di sabato sera. Lì ho incontrato un vecchio amico, che stava in fila per denunciare lo smarrimento del bancomat. Gli ho raccontato perché mi trovavo lì. Lui mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: “Non fare quella faccia da funerale. Vincenzo, i ragazzi combinano di queste cavolate, gli passerà, anche i miei figli ne hanno fatte, Luigi ora ha vent’anni e l’altro giorno tornato da un locale alle tre di notte, in garage ha rotto il fanale destro dell’auto di mia moglie appena comprata. Quello si era sballato con qualche canna anche se lui nega, ma io ho sentito la puzza dai suoi vestiti”.
Quella frase non mi ha sollevato per niente! Le canne….l’unica cosa che ancora mi mancava nella lista nera di mio figlio! I dubbi affollavano la mia mente, come cavalli al galoppo in un ippodromo durante una gara. Così mentre attraversavo il corridoio giallo e incrociavo giovani carabinieri in divisa, mi domandavo: ”Che padre sono? Troppo debole? Troppo consenziente? Marco ha tentato di rubare un motorino! Cavolo un motorino!”
L’ufficiale che ha sbrigato le pratiche era simpatico, e ha alleggerito la tensione che sentiva muoversi nella stanza con la foto del Presidente Mattarella incorniciata, con qualche battuta. Io ne ricordo solo una: ”Giovani la capa non l’avete ancora bona, ma nemmeno le mani” . Alla fine i due polli nemmeno erano riusciti a rompere la catena del motorino. Sentivo un dolore dentro troppo forte anche solo per muovere gli angoli della bocca. Il furto di mio figlio era il mio fallimento, il tempo in quella stanza mi è parso infinito.
Il carabiniere gli aveva voluto mettere paura, e li aveva portati in caserma per spaventarli. Marco non aveva nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia. Ero nervoso, in macchina dopo essere usciti dal Commissariato, avrei avuto voglia di dargli due o tre sberle, di quelle forti che lasciano il segno. Quelle che mio padre mi dava quando facevo qualcosa che non andava. Io mi sono sempre promesso di non usare le mani con i miei figli, eppure in quel periodo spesso avrei voluto rompere il mio giuramento, ma non l’ho fatto! Ho respirato profondamente, stringendo il volante. Prima di arrivare a casa ho detto: “Andiamo a prenderci una cosa da bere e parliamo “. Seduti al tavolo ho iniziato un lungo monologo: ”Io rispetto le regole perché porto con me il senso della legge: non rubo, non uccido, non tradisco, ecc…Non per paura di ricevere una sanzione, ma perché porto nel cuore la coscienza che questo comportamento non è corretto. Mi sono illuso di averti trasmesso questi valori ! Ti ho sempre lasciato libero anche per questo. Non ti ho mai imposto di studiare la chitarra come ho fatto io, né di giocare a calcio, come faccio ogni giovedì sera da anni, o di andare in bici come faccio spesso la domenica. Nemmeno di studiare il greco, lingua che tua mamma insegna, o di fare lo scientifico perché voglio che diventi un ingegnere come me. Infatti sei all’ultimo anno di liceo artistico, e sei un antisportivo per eccellenza. Ma tu non puoi fregartene di tutto! Una volta una bravata ci sta, anch‘io con un amico presi l‘auto di mio fratello per andare ad una festa a Fregene, e avevo solo il foglio rosa, una pazzia! Più il là di questo non sono mai andato. Tu ne combini una dietro l’altra! Mamma è a pezzi!”
Mio figlio rigirava l’anello che aveva al dito, gli guardavo il volto pallido, con un accenno di barba dai lati, i ricci castani e gli occhi grandi. Lo trovavo bello, e terribilmente triste, mi ha detto: “Papà ho esagerato, non so cosa ho in questo periodo, parlerò con quel prete se vuoi, o con lo psicologo, mi iscriverò a nuoto o in palestra, ti giuro da oggi ti darò soddisfazione, non ci sarà un solo giorno nel quale tu sarai deluso da me “.
Io ho sentito che potevo fidarmi di lui, dal tono che aveva la sua voce. Gli ho sorriso. Ho pensato ad un passo della Bibbia e gli ho detto:
“ Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato; un tempo per uccidere e un tempo per guarire; un tempo per demolire e un tempo per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere; un tempo per fare cordoglio e un tempo per ballare; un tempo per gettare via pietre e un tempo per raccoglierle. Questa è la Bibbia, non parole mie ! Aggiungo che per te adesso è tempo di cambiare!”
L’ho guardato negli occhi e l’ho stretto a me. Lui ha preso a singhiozzare, la ragazza dietro al bancone ci ha guardato e mi ha sorriso. Marco in quel momento era il mio figlio prodigo. Da quel giorno le cose sono cambiate, perché lui ha avuto paura anche di se stesso. Con il tipo tatuato si vedono ancora. In quel caso ho sbagliato io a giudicare, è un bravo ragazzo, canta in una band, e ogni tanto Marco riprende i suoi concerti con la telecamera. Mio figlio è entrato al centro sperimentale, sogna di fare il regista, ha fatto tre corti .
Al centro del gesto del perdono c’è la possibilità della ripartenza, della resurrezione della vita. Dentro il profondo di me stesso, anche quando stavo molto male, non ho mai dubitato che Marco prima o poi tornasse a comportarsi bene, perché quando l‘ostetrica mi ha dato il suo gracile corpo tra le mani, ho sentito tanta forza in lui, la stessa che gli ha dato modo di cambiare.