Riuscire a vedere il cielo quando ci fanno del male
Quando ci pigliano a pesci in faccia.
Quando chi amiamo molla una fregatura colossale.
Quando ci offendono deridono calunniano.
Ogni volta cioè che monta dentro l’onta, l’offesa, l’orgoglio ferito.
E vorremmo reagire a caldo.
Con una cinquina a piene dita veloce e secca.
O schizzando fuori rabbia, dolore, vendicando.
Perché adesso ti sdrumo, e tu non sai chi sono io, io che valgo e adesso ti spedisco su Marte con l’urlo fotonico.
Un putiferio.
E Massimo Meridio dagli spalti che s’alza e applaude, e l’arena dove uno solo esce vivo è servita.
Insomma.
Quando vorremmo reagire al dolore provocandone altro perché è più facile, perché l’adrenalina carica forza abbondante da poter lottare a mani nude con l’orso marsicano.
Quando accade così, che magari accade a molti, prima o poi, una volta nella vita o più.
E si rischia di fare cose di cui poi ci si pente.
Un consiglio.
Fermarsi.
Non fare niente.
Niente.
Andar via dai pesci in faccia, ecco, magari sì, non restare sotto a pigliarseli.
Ma poi.
Trovare un posto buono.
Con persone che non danno consigli a caldo, che non aizzano, che pacificano.
Riflettere.
E pregare. Molto. Pure per quell’anima sciagurata che ci fa il male aggratis.
Perché il male esiste. E conquista e infiltra.
E chi provoca il male ci sta dentro.
E magari invece, noi riusciamo a vedere ancora il cielo.
E questa è grazia.
Riuscire a vedere ancora il cielo, quando ci fanno del male, è na grazia grossa.
Chi semina vento raccoglie tempesta.
Ma chi semina perdono raccoglie amore.