Quando un padre parla in carcere con il proprio figlio assassino
Penso che sia stato un errore enorme riportare sui media le conversazioni tra un genitore e il figlio 23enne in carcere per femminicidio. Perché in quelle parole non si troverà mai la verità di nessuno, ma solo il senso di disperazione e ineluttabilità di fronte a qualcosa che nessun genitore potrà mai normalizzare o accettare nella propria dignità di persona, così come nella propria identità paterna o materna.
Incontrare in carcere un figlio che si è macchiato di un assassinio trova i suoi genitori incapaci di capire cosa dire e cosa fare. Se non sbaglio, quei due genitori che oggi si trovano raccontati su tutti i media nazionali, quando il loro figlio assassino è stato catturato e consegnato alla giustizia hanno chiesto di rimandare per settimane il loro primo colloquio con quello stesso figlio, scoprendosi totalmente incapaci di capire che cosa una mamma e un papà possano fare o dire in un contesto di simile gravità.
Le frasi che sono state dette in un colloquio che mai avrebbe dovuto diventare pubblico rappresentano, probabilmente, un tentativo con cui tenere a freno la paura che un figlio si faccia fuori. In quelle parole non c’è il credo di un genitore, ma la sua disperazione. Non c’è il desiderio di assolvere l’enorme errore di un figlio, ma solo un tentativo per fare in modo che non si tolga la vita. Così come un medico non guarda la fedina penale di un suo paziente a cui deve salvare la vita, lo stesso fa un genitore con il proprio figlio assassino.
Desidera, comunque, che resti vivo.
Perché a quel figlio ha dato la vita. Perché nel tenerlo vivo, spera che la vita e un tempo lunghissimo di espiazione si trasformino in occasioni di riparazione e riabilitazione.
C’è un padre che ha raccontato al mondo tutto questo: è il papà di Erika, che non ha mai smesso di andare a trovarla e di esserle padre nonostante sia stata l’assassina di sua moglie e di suo figlio. Nessuno di noi può minimamente immaginare che abisso di dolore vivono questi genitori, un dolore che è probabilmente identico a quello dei genitori che vedono i propri figli e figlie assassinate. E questo messaggio è stata una delle prime dichiarazioni ufficiali fatte proprio da Gino Cecchettin, il padre di Giulia.
Tutto ciò che viene reso pubblico di questa vicenda negli ultimi giorni, non è altro che uno spaventoso e macabro circo che non ha nulla a che fare con i temi che riguardano la prevenzione della violenza di genere.
Dietro alle pubblicazioni dei dialoghi resi pubblici, c’è solo l’insensibile avidità con cui questo mondo della comunicazione non si ferma più davanti a nulla, inventando spaventose scene ed immagini di una pornografia del dolore che non conosce limiti, in cui tutti diventano gladiatori pensando di essere giustizieri. So che questo messaggio sarà divisivo e da molti male accolto. Ma è importante prendere posizione su temi così importanti.
Io penso che il problema non sia nelle parole che un padre disperato ha detto ad un figlio disperato. Io ritengo che il problema stia nel fatto che quelle parole non avrebbero mai dovuto essere rese pubbliche, generando solo reazioni scomposte.
Non è così che si combatte la cultura della violenza. Anzi penso, che questo approccio serva solo ad alimentarla ulteriormente.