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Tu che mi hai insegnato a camminare – per la FESTA DELLA MAMMA un racconto di Benedetta Bindi

“Non scorderò mai mia madre, perché fu lei a piantare e nutrire i primi semi del bene dentro di me”. (Joseph Roth)

L’ho sognata stanotte, forse perché era il giorno della festa della mamma. Era appoggiata alla ringhiera, fumava la sigaretta, aveva una canottiera a righe bianche e rosse e dei pantaloncini jeans.

Appena ha sentito la mia presenza, si è girata verso di me, vedevo tre quarti del suo volto. È rimasta ferma ad osservarmi, ho pensato che guardasse i miei capelli che negli ultimi anni si sono fatti grigi, oppure la mia pancia, che è visibilmente cresciuta da quando ho smesso di correre.

Poi mi ha detto: “questa è alla menta non fa male, la danno anche  ai bambini”, e mi ha dato le spalle. Io sono rimasto fermo, ero così emozionato da non riuscire a parlare, volevo correre ad abbracciarla ma non potevo muovermi, poi mi sono svegliato. 

Mia madre mi ha fatto provare a fumare quando avevo solo undici anni.

Eravamo io e lei al mare, seduti sulle dune, io con la mia bibita, lei con la sua amata birra a guardare il tramonto. Ricordo che ha acceso due sigarette insieme, e poi una l’ha passata a me dicendo:” tieni, devi pure provare una volta, e non voglio che tu lo faccia con altri”.  Non mi piacque, tossii mentre lei rideva a crepapelle. 

Mia madre è stata una compagna, un’amica, insieme eravamo protettore e protetto. Credo sia uno dei sentimenti più belli che siano concessi all’essere umano.

Un giorno appena tornato da scuola, l’ho trovata seduta per terra, vicino alla tazza del water. Aveva bevuto un’intera bottiglia di gin, che giaceva vuota accanto a lei.

L’ho aiutata ad alzarsi e l’ho accompagnata a letto.

Seppi il giorno dopo il motivo della sua sbronza. Stanca del suo nuovo capo, che tentava sempre di metterle le mani addosso, si era licenziata dalla casa di produzione dove lavorava come segretaria, e prima di andarsene gli aveva rotto un costosissimo vaso che lui aveva in ufficio. Poi era caduta nel panico, perché aveva le bollette da pagare, l’affitto. Ricordo con affetto l’appartamento dove vivevamo, era piccolo, all’ultimo piano, con una splendida vista sul verde, ma caldissimo d’estate. La stanza più bella per me era il bagno. Le piastrelle erano turchesi, con appiccicati tanti adesivi di pesci. Li avevo messi io per simulare di essere dentro il mare.  D’estate mia mamma prendeva due settimane di ferie a luglio per portarmi in campeggio, e qualche volta dalla sua amica Irene all’Argentario. Così nel mese di agosto mi trovavo sempre in città, i campi estivi erano chiusi, e quando ero ancora troppo piccolo per fare una passeggiata da solo, stavo ore solo al bagno con il ventilatore accesso. Seguivo con il dito tutti gli animali colorati, ad ognuno avevo dato un nome e inventavo storie. Di carattere sono stato sempre piuttosto taciturno, mi è sempre piaciuto più osservare, che parlare. Certo di domande ne avevo, eccome, soprattutto quelle da fare a mia madre, ma evitavo per non alterare il suo carattere permaloso.

Un giorno però dopo aver fatto la spesa, le dissi perché riversava sempre il cibo nel frigorifero come fosse una lavatrice, perché beveva troppe birre, per poi addormentarsi sempre sul divano.  Poi sentii il bisogno di dirle che in casa di Paolo tutto era in ordine, sua mamma metteva ogni alimento ben allineato in frigo, e beveva succo di mela perché era salutare.

Lei la prese male, mi disse di farmi adottare dalla madre del mio amico, e che le birre gli adulti ne bevono quante ne vogliono, che il succo di mela la faceva vomitare, e la sera crollava sul divano per la stanchezza di lavare cessi e rifare i letti. Poi uscì dalla cucina sbattendo la porta e si chiuse in camera, non mi preparò la cena. Lei non si poteva contraddire, andava fuori di testa. A volte pensavo che l’avrebbe persa, se non gliela avessero avvitata sul corpo. Lasciava il tesserino da lavoro sul lavandino al bagno, i trucchi  sul tavolo in cucina, la borsa sotto il divano. Lei era così, prendere o lasciare. Forse per questo mio padre era scappato prima che nascessi. Lei diceva spesso : “tuo padre  era difettato, sai, come quelle cose che escono male dalla fabbrica”. È morto quando avevo tre anni in un incidente di moto. Di lui mi sono rimaste qualche foto, oltre a due o tre articoli trovati su internet.  

Mia madre mi ha raccontato che quando è rimasta incinta, si conoscevano da pochi mesi, lui non se la sentiva di fare il padre, lei invece non aveva dubbi, voleva essere madre. Hanno vissuto insieme fino a quando ho compiuto quattro mesi, poi lei l’ha buttato fuori di casa e lui non è più tornato. Era un comico. Nonna diceva che mia madre è sempre stata una donna difficile, che la bellezza l’aveva resa poco tollerante, che era una principessa senza carrozza, o se l’aveva presa qualche volta  era scesa subito, non capendo che era il caso di restarci.  

Lei e mamma litigavano spesso, nonna tante volte usciva da casa nostra, sbattendo la porta e dimenticava di salutarmi tanto era arrabbiata. 

Mia madre mi chiamava sua Maestà, e poi diceva “I Re posso crescere alti e forti, anche se hanno una gamba sola lo sai?” Mi ripeteva spesso questa frase, io da principio non la capivo, poi ne ho afferrato il significato, tutti avevano un papà tranne me, aveva paura potessi soffrirne. Io non ho mai sentito la mancanza paterna, lei mi bastava.

Ogni tanto avrei voluto vederla più felice, solo per questo avrei voluto un uomo  accanto a lei.  Aveva qualche amico, era troppo bella per non averne, ma non ha mai portato in casa nessuno. Citofonavano e lei scendeva, io mi affacciavo al terrazzo e la vedevo salire in una macchina. Solo quando sono andato via di casa, è venuto ad abitare da lei Gian Carlo, una brava persona, aveva un bel negozio di abbigliamento in centro. Ogni tanto con lui ci vediamo ancora. Spesso mi sono domandato quanta forza ci ha messo ogni giorno mia madre per  alzarsi e andare a lavorare, non era facile fare le pulizie in un albergo, non era quella la vita che voleva. Una volta le chiesi perché aveva scelto proprio quel tipo di lavoro, e lei mi ripose che era l’unico contratto a tempo indeterminato che aveva trovato, così aveva accettato subito senza pensarci. Se rimaneva senza lavoro, mi avrebbero portato via gli assistenti sociali e mi sarei ritrovato in una casa famiglia.

Mia mamma con la sua distrazione, le con le sue birre aperte la sera davanti alla televisione, mia madre che si addormentava sul divano, ed io che le mettevo una coperta addosso e andavo a dormire. Mia madre che mi chiamava Maestà, mi ha insegnato a camminare!   

Grazie mamma per esserci stata, per aver investito su di me, tempo, ore, secondi, vita.

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