Per noi genitori: il potere della legittimazione
Dedico questo pezzo alla mia amica e collega Luisa (esiste veramente ma il suo nome è un altro) e a tutte quelle donne che senza entrare troppo, anzi forse per nulla, nella polemica della parità di genere, ogni giorno fanno quello che le donne sono costitutivamente programmate per fare: prendersi cura di tutti con l’attenzione dei dettagli distribuendo affetto a pioggia, correndo da un angolo all’altro delle vite, senza chiedersi se tutta la fatica sarà vista e tantomeno senza chiedersi quando arriverà il loro turno.
Luisa è più giovane di me di 10 anni circa, io vado per i 50, lei per i 40. Nel reparto di Rianimazione dove lavoriamo entrambe, colleghi ed infermieri ci prendono spesso in giro: io sono stata durante gli anni della specializzazione la tutor di Luisa ed il risultato è che adesso ci chiamano “i due cloni”. In effetti, siamo molto orgogliose l’una dell’altra ed è vero che condividiamo lo stesso modo di fare medicina oltre che mille altri valori. Siamo molto dedicate al nostro lavoro, sempre tese a studiare ed a migliorarci, salde nella correttezza, aperte alle amicizie, entusiaste della vita che sia una giornata sugli scii o una serata in pizzeria, attente a costruire un nido che sia famiglia ed una famiglia che sia nido…insomma sempre di corsa tra mille sfide esistenziali con la benzina dell’inadeguatezza a fare da carburante. Essendo io più vecchia, sono diventata mamma per prima: ora il mio Leonardo ha 11 anni e di ciò che abbiamo o stiamo vivendo, dal nido alla scuola secondaria passando per calcio e chitarra, ho sempre condiviso molto con la mia amica Luisa che invece è diventata mamma di due bimbi negli ultimi 4 anni. Per lei, dunque, tappe doppie e ravvicinate: un discreto carico.
Io all’epoca ho scelto e ho potuto stare a casa tutto il tempo della maternità facoltativa: ho vissuto tutto il primo anno di Leonardo a casa con uno stipendio ridicolo ma d’accordo con mio marito, avevo intuito che quel tempo, il primo anno, passato con il mio bebè avrebbe dato dei frutti in futuro. Soprattutto, senza aver letto grandi libri (l’ho fatto poco dopo) ho sentito dentro di me che per il primo anno, mio figlio semplicemente “non sarebbe stato lasciabile”. Ho sentito, ogni giorno di quei dodici mesi, che avevamo bisogno l’uno dell’altra per crescere nel desiderio di conoscerci e cercarci e confermarci. Nei primi dodici mesi ho sperimentato la sua gioia quando si rifletteva nei miei occhi ed ho capito che davvero nessuno può crescere sano ed equilibrato se non sente di essere stato desiderato. Ed ogni giorno tutti noi chiediamo questa conferma. Allora, come oggi, so che ogni carezza fatta si è depositata a dire “tu sei stato cercato”. Ogni sguardo è stato tradotto in premura ed accompagnamento. Ogni abbraccio è diventato la promessa di un legame eterno, indipendentemente da quello che farai ma solo in nome di quello che sei. Questo lavoro fatto di baci, bagnetti, cremine, versetti, sorrisi ha avuto bisogno di calma e di tempo: ha avuto bisogno almeno di un anno. Quello di poter stare a casa tutto il primo anno di vita con mio figlio si può chiamare solo in un modo: grandissimo privilegio.
Poi è arrivato il momento di tornare a lavorare perché ho sempre saputo che non avrei mai smesso di fare, anzi di essere medico. Quindi è arrivato l’inserimento al nido perché io e mio marito abbiamo creduto nel potere di scambi tra bimbi e famiglie più che nello sforzo quotidiano dei nonni o nella relazione univoca con una tata. Al di là del dettaglio nido, ad un certo punto, è arrivato il momento di lasciare Leo a persone fidate in un luogo bello scelto con dedizione. In assoluta spontaneità, ho imparato a lasciare Leo ogni giorno grazie al potere della legittimizzazione: io legittimavo il suo pianto e pure la mia tristezza. All’atto pratico ricordo che quando entravamo negli accoglienti locali del nido, Leo nei primi tempi piangeva, senza disperarsi ma con un filo di tristezza in ogni lacrima. Ricordo che mi abbassavo a terra, mi mettevo in ginocchio di fronte a lui e, a volte piangendo io stessa, gli dicevo in maniera dolce ma assertiva “hai ragione Leo è una grandissima fatica, anche la mamma è triste ma sono sicura che sopravviveremo e dopo la nanna del pomeriggio staremo di nuovo insieme”.
Non ho mai minimizzato la sua sofferenza anche perché era la mia. E non ho mai ceduto alla disperazione anche perché ero autenticamente convinta che lo lasciavo in un posto bellissimo con persone altrettanto belle e competenti. L’inserimento si è rivelato assolutamente tollerabile e tutto è filato liscio senza segnali di malessere in nessuno di noi due. Passavano i mesi e Leo prendeva coraggio fino a quando sul finire dell’anno l’ho visto correre verso le educatrici senza nemmeno salutarmi ma fiducioso di potersi buttare in un altro abbraccio. Ricordo bene quel momento: lungi da me il pensare di averlo perso, mi sono fatta una carezza e mi sono detta “è sufficientemente sicuro della madre per cui adesso può darsi anche agli altri”.
Luisa invece, oggi vive un’esperienza diversa. Il figlio grande inizia la scuola dell’infanzia, la figlia piccola il nido. Luisa ha ripreso il lavoro molto prima del primo anno di vita dei due bimbi: il mutuo incalza e c’è la possibilità, oltre che il bisogno, di fare qualche straordinario lavorando dalle 8 alle 20. All’atto pratico, i bimbi si svegliano e non trovano la mamma in casa, cenano, crollano nel mondo dei sogni e di nuovo non trovano la mamma in casa. Durante gli ultimi turni che abbiamo svolto insieme, Luisa ha ricevuto diverse telefonate da casa: i piccoli urlano e piangono, il marito è in difficoltà oggettiva. E’ a quel punto che la mia amica mi ha chiesto un consiglio.
Ma io non ho un consiglio da elargire, ho solo un’esperienza da condividere.
Nella sospensione del giudizio più vera, aiuto Luisa a fare spazio a due domande.
La prima, la più scomoda: il pianto dei bimbi per telefono, la loro vocina che chiede la mamma sono per Luisa un qualcosa da correggere e di cui liberare le creature oppure sono una carezza alla parte narcisistica di ognuno di noi in una sorta di “vedi quanto mi vogliono bene, non sanno stare senza di me? Mi preferiscono a tutte e quattro i nonni e pure al papà…”. Credere che i bimbi così attaccati alla mamma siano quelli che maggior bene vogliono al genitore è un equivoco: i bimbi che non sanno tollerare un’assenza onesta (in termini quantitativi) della madre sono bimbi non sufficientemente sicuri, che non hanno ancora incamerato la certezza del ritorno materno, non sono ancora convinti del non abbandono.
Seconda domanda: quanto siamo disposte, soprattutto noi madri, a mettere da parte le nostre attività (legittime come allungare un po’ i tempi lavorativi) in nome di quegli attimi fondamentali da passare con i nostri cuccioli: la colazione ossia l’inizio di un nuovo giorno, il bagnetto ossia l’atto di massima vulnerabilità, la cena ossia il saluto di un giorno compiuto, la nanna ossia l’ingresso nel misterioso mondo dei sogni? Quanto siamo disposti a dire ad alta voce che è costruendo bene questi momenti che si piantano semi per adulti sereni? Quanto siamo anche disposti a legittimarci (e torniamo al titolo) che tutto questo è tremendamente bello quanto impegnativo? Iniziare a legittimare le nostre fatiche è forse il primo modo per vedere quelle dei nostri figli…mi sa tanto a tutte le età…