La società della neve, film su Netflix di J. A. Bayona,
Vi sarà capitato anche a voi, di vedere un film seduti sul divano di casa, che vi rapisce al punto di non guardare il messaggio appena arrivato sul telefono, di non distrarvi al richiamo di un rumore sulla strada, come se foste nella sala cinematografica? Ecco a me è accaduto l’altra sera. La pellicola era: “La società della neve“ la storia del disastro aereo delle Ande, accaduto nel 1972, anno nel quale sono nata.
Devo ammettere che non ero a conoscenza di questa storia che il regista J. A. Bayona, ha raccontato magistralmente. La pellicola infatti è stato scelta come candidato della Spagna agli Oscar 2024. Molti potrebbero pesare a un lungometraggio triste, da vedere al massimo una vota nella vita. Io invece appena ho terminato la visione, ho pensato che l’avrei rivisto volentieri con mio figlio adolescente, per fargli comprendere meglio il senso della vita. A me non è rimasta la crudezza di certe scene, ma la bellezza dell’aiuto reciproco nei casi più estremi, l’idea di comunità, il desiderio di resistere nonostante tutto.
Non è la prima volta che questa storia viene raccontata al cinema, c’è stato infatti il film: « I sopravvissuti delle Ande » di R.Cardona 1976, e « Alive – Sopravvissuti « di F.Marshall 1993. Questa volta Bayona, adotta il punto di vista dell’omonimo libro di Pablo Vierci,(acclamato scrittore e giornalista uruguaiano compagno di scuola della maggior parte dei sopravvissuti del disastro aereo delle Ande).
La storia inizia con il volo 571, decollato la mattina del 12 ottobre 1972 dall’aeroporto Carrasco di Montevideo, in Uruguay, e diretto all’aeroporto Benìtez, di Santiago del Cile, si schianta sulla Cordigliera delle Ande. A bordo, oltre a normali passeggeri, c’è anche la squadra di rugby degli Old Christians Club. La storia è raccontata proprio da uno di loro, Numa Turcatti, (a causa di un’infezione alla gamba, un giorno entrò in coma, dopo essere sopravvissuto per 61 giorni e morì. I suoi compagni decisero di partire il giorno successivo per la spedizione finale, nella quale riuscirono a trovare aiuto dopo 10 giorni). Nando Parrado, uno di quelli che hanno guidato l’ultima spedizione, ha dichiarato che Turcatti, sapeva come conquistare l’amicizia dei sopravvissuti: “Numa ha fatto sentire la sua presenza attraverso atti eroici silenziosi: nessuno ha lottato così duramente per la nostra sopravvivenza, nessuno ci ha ispirato così tanta speranza e nessuno ha mostrato così tanta compassione per coloro che hanno sofferto di più”. I feriti furono assistiti da Roberto Canessa e Gustavo Zerbino, studenti universitari di medicina, rispettivamente al secondo e al primo anno di corso. Mentre si trovavano lassù, i sopravvissuti hanno dovuto affrontare di tutto: temperature a – 30°, valanghe e ovviamente assenza di cibo. Per sopravvivere hanno dovuto prendere una decisione terribile: nutrirsi della carne dei morti. L’obiettivo è spostare lo sguardo su implicazioni più profonde e di natura morale. Che si tratti di quella divina o di quella degli uomini, entrambe abbandonate nel nome della sopravvivenza.
Ho trovato bellissima la scena finale, dove uno dei sopravvissuti non vuole salire in elicottero, quando gli dicono di lasciare a terra la valigia, con gli effetti personali dei defunti. Vuole riportare ai parenti qualcosa, visto che dei cadaveri non era rimasto nulla.
Il film si conclude con la voce narrante di Turcatti: “I giornali parlano degli eroi delle Ande, tornati dalla morte per incontrare i genitori, le fidanzate, i propri figli. Ma loro non si sentono eroi, perché sono morti come noi e solo loro sono tornati. E ricordandoci si chiedono perché non siamo tornati insieme, che senso ha? Dateglielo voi un senso, siete voi la risposta. Prendetevi cura gli uni degli altri e raccontate a tutti quello che abbiamo fatto tra le montagne“.
In queste parole è racchiuso il messaggio del film.