“Chi sono?” un racconto di Benedetta Bindi
“Non hai mai veramente capito qualcosa, finché non riesci a spiegarla a tua nonna” Proverbio
“Chi sono ?” Me lo sono domandato tre anni fa, una mattina prima di uscire per andare a iscrivermi all’università. Non ero convinto, fra tutte le facoltà economia e commercio, mi appariva la più interessante. Così guardandomi allo specchio, mi sono chiesto chi fossi veramente, una mattina di settembre di tre anni fa.
Sapevo che per i miei la Laurea era fondamentale, come allacciarsi la cintura in macchina, non gettare le carte dal finestrino, farsi il segno della croce entrando in una chiesa. Io mi domandavo, se lo fosse altrettanto per me. La nonna Irma, mi aveva suggerito di non abbandonare gli studi. Ogni mio dubbio l’ho sempre rivelato a lei. Non a i miei genitori e tanto meno a mio fratello Giulio. Io e lui siamo come le linee bianche in autostrada, dividono i sensi di marcia, rimanendo perennemente parallele, senza incontrarsi mai. Eppure un tempo ci toccavamo, eccome se lo facevamo. Quante ce le siamo date. Forse tutto è iniziato nell’infanzia, lui costruiva con i lego: torri, castelli, case. Io arrivavo con il pallone e gli rompevo ogni cosa, invidioso della sua perfezione.
L’unica volta che ci siamo parlati seriamente, è stato quel lunedì mattina, quando mi ha visto uscire dal bagno, e passare davanti alla sua camera a testa bassa. Dovevo avere una brutta cera, perché si è alzato dalla sedia e venendomi incontro mi ha detto: “Vincenzo vai a un funerale o a iscriverti all’università?”
Stava preparando un esame, aveva sulla scrivania dei libri di medicina che mi facevano venire la pelle d’oca solo a tenerli in mano. Gli ho risposto: “Penso che l’economia sia solo una perdita di tempo. Sono sicuro che posso imparare tutto quello che mi serve leggendo articoli, studiando sui libri che mi interessano. Ho paura che mi capiti come al liceo, imparerò un mucchio di cose di cui non mi importa, e le dimenticherò poco dopo. Io non sono come te, mamma e papà non lo vogliono capire”.
Lui mi ha guardato serio, come fossi già un suo paziente e mi ha detto: “Nessuno ha capito come sei, strano di sicuro. Esci poco, se non con quell’altro tuo amico con i capelli a cespuglio, il futuro musicista. Passi le ore con le tue piantine in terrazzo. E poi vai dalla nonna a cena, di sabato sera! Ti ho sentito dire che non ti piaceva nessuno della tua classe al liceo, mi sembra che fai di tutto per renderti la vita impossibile. Credimi lo è già abbastanza per conto suo. Esci con i ragazzi della tua età, trovati una donna. E se non studi poi cosa vuoi fare, portare le pizze? Fare il commesso?”
Ricordo che gli ho risposto: “Forse lavorare la terra, vedere i semi che ho piantato crescere. Ascoltare le persone mi affatica. Tutti parlano dei loro problemi, magari s’ intavola un discorso su un film, ma poi ci infilano sempre la loro vita personale. Non ce la faccio. Io non ho bisogno di condividere i miei pensieri, le persone lo fanno di continuo. Francesco, cespuglio come lo chiami tu, mi piace perché parla poco e mi fa ascoltare la musica che compone”.
Giulio mi ha guardato, ha scosso la testa e mi ha detto: “Sono serio fatti curare fratello, stai messo male, ma molto male. Ora vado a studiare, altrimenti con te ne esco matto. Ora vuoi fare il contadino perché le zucchine non ti mettono il panico! Cura la causa non il sintomo!”
Mi sono rabbuiato parecchio dopo la sua risposta. Così mi sono iscritto all’università, per dimostrare che non ero un disadattato e perché la nonna ci teneva, era convinta che avrei conosciuto anche una ragazza. Aveva ragione. Natalia è stata l’unica cosa buona in questi ultimi tre anni. Lei è altissima, 1.82 come me, per una ragazza non è poco, capelli lisci, lunghi. La sua pelle è bianca, liscia. Mi ero avvicinato a lei perché nell’atrio dell’università, era l’unica che mi sembrava fuori luogo come me. Indossava un vestitino rosso, piuttosto senza forma, abbinato al cerchietto che aveva in testa, le ballerine nere, e il rossetto non coincideva con le labbra. Un particolare che noto spesso in mia nonna. Evidenzia anche una persona distratta, che non perde ore a guardarsi allo specchio. Natalia mi è piaciuta subito, proprio per quello.
Ogni dettaglio acquista valore, quando intorno a te nulla ha un senso. Così le ho chiesto spiegazioni sulle lezioni. Da quel momento siamo diventati amici. Per me è stata come una boa, quando nuoti senza sosta in mezzo al mare. Tutti quei ragazzi, il rumore di quello stanzone enorme, mi aveva fatto girare la testa, volevo scappare. Invece mi sono trovato accanto a lei, come fosse una pagina di un libro che ti rapisce. Era così loquace che mi ha facilitato il mio stare in silenzio. Da quel giorno sono trascorsi tre anni, sono in regola con gli esami, grazie a lei. Natalia si appunta tutto durante le lezioni, poi mi rispiega i concetti importanti. Oggi però mi sono tornati tanti dubbi, forse anche a causa degli alberi, hanno le foglie nuove, fresche, pulite è la primavera. Così come allora mi è balenata in mente la stessa domanda: “Chi sono?” I miei genitori pensano già di farmi assumere nello studio di mio zio. Natalia vuole lavorare a Roma, sogna di comprare un piccolo appartamento e stabilirsi in città. Lei vive in un paesino alle porte della capitale, impiega più di una ora e mezza per venire all’università. Meriterebbe più di me un impiego in un grande studio come quello di mio zio, pensavo che se rinunciassi io, lui potrebbe assumere lei.
Ieri ero nervoso, incerto su tutto, ho preso il motorino e sono arrivato davanti alla farmacia dove lavora mia madre. Durante la sua pausa pranzo, abbiamo preso un panino al bar. Si è quasi strozzata, invece di deglutire il boccone che aveva messo in bocca, quando le ho detto: “Voglio lasciare l’università. Mamma non mi vedo a girare con il Suv, far parte di un mondo con mille intrallazzi, chiudermi ore in un ufficio e vestirmi come zio”. Lei si è arrabbiata e mi ha detto: “Ma sei scemo? Che intrallazzi? Per favore, almeno non indosserai più la tuta sempre! E se vuoi puoi andare in motorino per tutta la tua vita! Ora finisci gli esami, seppellisce le tue mille paure, ce la farai non mi fare impazzire!”
Io ho taciuto. Lei ha capito di essere stata aggressiva. Io volevo solo piangere o urlare. Sono scappato via, alzandomi in piedi, senza salutarla. Ero offeso, forse era vero, avevo paura di cambiare vita, ma anche che Natalia, dopo tanti sacrifici, non trovasse nulla adatto a lei. Temevo dovesse fare la barista come i suoi genitori. Lei già da piccola divideva a casa le bollette da pagare, si metteva alla cassa, amava i numeri. Decisa come mio fratello, che un Natale per regalo volle dai miei uno stetoscopio. Tornato in camera mia, ho scritto a Natalia, le ho detto che pensavo di mollare tutto, lei mi ha mandato una frase: “Ero felice ogni giorno al pensiero di preparare un’esame con te. Così mi spezzi il cuore” Io non ho risposto, mi ha spaventato. Da quando la conosco è molto dimagrita. Ora è ancora più bella, non mi annoio quando sono con lei e pensarla mi fa stare bene, ma non l’ho mai detto a lei.
Quasi tutti pensano che le cose siano vere finché non le diciamo. Io credo il contrario: i pensieri sono più veri quando vengono pensati, detti si distorcono.
Ero così scosso per tutto che sono corso a casa di mia nonna. Quando mi ha visto era felice, mi ha detto subito: ”Che bello vederti, se non mi hai telefonato prima dovrai dirmi qualcosa di urgente?” Non sapevo se mia madre l’avesse già chiamata, ho risposto: “Beh…“non riuscivo a continuare. Chiunque al suo posto avrebbe detto qualcosa, lei invece ha preso dal tavolo una bottiglia di vino rosso, l’ha aperto e ne ha offerto un bicchiere anche a me. Di solito non gradisco l’alcool, mi fa venire sonno, mi ingarbuglia i pensieri, invece l’ho bevuto tutto di un fiato. Lei mi ha guardato e ha detto: “Accipicchia avevi sete!”, e mi ha riempito un altro bicchiere. Poi mi ha detto: “C’è qualcosa che non va?”
Ed io le ho detto dei miei dubbi su tutto, l’università, su Natalia. La nonna mi ha detto che le persone si comportano in modo stupido quando hanno paura, cercano la via più facile. Secondo lei avendo fatto più metà degli esami, dovevo continuare, era come lasciare una coperta fatta a mano incompiuta. Mi ha mostrato i ferri, con una lana turchese mi ha fatto vedere i gesti da compiere: ”Vedi ci vuole pazienza, a volte anch’io in mezzo a un lavoro a maglia vorrei lasciare. Alcune volte devo smontarlo perché una cosa mi è venuta male, ma non mollo mai fino a quando non è terminato il lavoro. Una mattina potresti svegliarti e dire, perché non mi sono laureato? Tra una strada in discesa e una in salita, prendi sempre la prima. Oggi scrivi a Natalia quello che provi senza girarci intorno, se ti preoccupi per lei, sei innamorato. Diglielo. Manda la palla nel campo altrui, per così dire”.
Ho risposto: “Ok, farò come dici, però stasera posso rimanere a dormire qui?” Lei mi ha sorriso, poi ha abbassato il mento. Si è alzata e ha messo della musica. Siamo rimasti a osservare il tramonto dalla sua grande finestre del salone, bevendo del Chianti e mangiando patatine e rimanendo in silenzio. Mi è salito un calore, una specie di allegria, mia nonna era al mio fianco, con il suo vestito a fiori, e il suo rossetto che colorava il filtro della sigaretta che aspirava. D’improvviso tutto intorno mi è sembrato più leggero, possibile, anche la mia vita.