Del sano ridere e dell’utilizzo delle parole
Ieri sera a cena ho citato ai figli alcuni deliziosi estratti dal cosiddetto ‘catalogo Peppino Amato’ di Flaiano e solo il maggiore ha un po’ sorriso per gli strafalcioni di quel produttore che sentiva parole per lui nuove e le travisava con un involontario ma sicuro effetto comico. Gli altri mi hanno guardata come fossi un marziano. Così hanno tirato fuori i cellulari e mi hanno proposto video che sembrano loro divertentissimi. Pieni di parolacce (non dovrei scandalizzarmi, io per prima sono uno scaricatore) ma soprattutto poveri poveri di parole. Anche quando ci fosse qualche idea questa viene espressa con un vocabolario che la mia generazione aveva già superato in prima media.
Non amo le geremiadi sui bei tempi andati e sulla decadenza odierna, ma qui siamo davvero al punto di non ritorno. Se non abbiamo più parole finiremo per usare gli oggetti, e male. I gesti, anche loro, sono già tramontati. Ridere per uno scivolone sulla buccia di banana è già superato. Oggi si ride per la violenza ripresa con uno smartphone. Lo smartphone è come il femore sollevato dalle scimmie nella scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio. Non do la colpa alla tecnologia, sia chiaro. Il problema è che senza parole per dire quello che vorremmo, per raccontare le nostre gioie, le nostre tristezze, le esperienze comiche o quelle tragiche nessuna tecnologia sarà in grado di farlo per noi. Nemmeno ridere, e quella sarà la faccenda più drammatica, perché il riso, lo diceva già Aristotele, è una forza seria e potentissima che rimette le cose in ordine.
Giuliana Zimucci