Il covo dove fu imprigionato Giuseppe Di Matteo deve diventare un luogo della memoria
In quel covo ci sono stato. E consiglio a tutti di andarci. Quel covo deve essere conservato per raccontare ai giovani, oggi e negli anni che verranno, in quale abisso possono precipitare gli uomini quando ci si lasciano trasportare dall’odio, dalla violenza, dalla sete di vendetta. Quando smettono di volere bene non solo agli estranei, ma ai propri stessi figli. Vi arrivai una mattina di qualche anno fa. Un casolare immerso nella verde campagna di San Giuseppe Jato, diroccato all’esterno; un vero fortino in cemento armato, all’interno. Un bunker minuscolo, senz’aria e senza luce.
Il prigioniero da tenere sotto controllo, era un ragazzino. Non aveva ancira 13 anni.
Una vittima innocente alla quale dovranno essere intitolate strade, piazze, scuole, perché i posteri sappiano che, se qualche passo è stato fatto nella lotta alla mafia, lo dobbiamo anche alla sua morte atroce. Quel ragazzo si chiamava Giuseppe Di Matteo.
È a lui che il mio pensiero corse nelle ore in cui il suo carnefice – quel Giovanni Brusca, la cui storia criminale ancora ci spaventa – fu rimesso in libertà «per fine pena».
Sentimenti contrastanti si accavallarono allora nel cuore e nella mente di tutti.
Da un lato, avvertivamo come un senso d’ingiustizia: «No, fermatevi, che state facendo? Non può tornare in libertà quest’uomo che ha terrorizzato l’Italia; che ha insanguinato la Sicilia; che ha fatto versare tante lacrime a milioni di persone…». Indignazioni giuste, comprensibili, condivisibili, ma alle quali bisognava opporre resistenza. E accettare, ingoiando bocconi di fiele e di dolore, che se questa è la legge – tra l’altro voluta proprio da Giovanni Falcone – era giusto che venisse rispettata.
Ed è bene che anche personaggi come Giovanni Brusca, avvertissero quanto nobile e civile fosse la società che tanto infangarono, insanguinarono.
Ma è su Giuseppe, da lui fatto catturare in provincia di Palermo, e tenuto – per 779 giorni! – prigioniero, prima di essere strangolato e sciolto nell’acido, che vorrei soffermarmi.
Quel rapimento sarebbe dovuto servire a convincere Santino, il padre, collaboratore di giustizia, a fare marcia indietro. Santino, pur sapendo di mettere a repentaglio la vita di suo figlio, quel passo non lo fece. E noi dobbiamo essergli riconoscenti. La storia di Giuseppe gettò l’Italia nello sconcerto. I mafiosi con lo strangolamento di quel giovane innocente – aveva ormai 15 anni – gettarono l’ultima, vergognosa maschera. Ed eccoli là. Meschini, cinici, disumani. Stupidi. La lettura dei verbali del processo per la morte di Giuseppe lascia senza parole. Alla famiglia della vittima nemmeno la consolazione di una tomba fu lasciata. Niente. Di Giuseppe Di Matteo non doveva restare niente. La vendetta fu servita su un piatto di ghiaccio avvelenato.
Il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia agrigentina nel 1990, è salito agli onori degli altari. La Chiesa lo ha proclamato beato. Insieme a lui e a padre Pino Puglisi, una miriade di persone oneste, giudici, uomini delle forze dell’ordine, semplici cittadini, hanno versato il sangue per la liberazione della Sicilia e dell’Italia dalla trappola mafiosa. Tutti noi dobbiamo inchinarci davanti al loro sacrificio.
Il dramma di Giuseppe, però, è singolare. La sua fu una agonia lenta, straziante, sconvolgente. Il ragazzo fu ingannato, illuso, deluso, non una ma mille e mille volte.
Negli ultimi due anni della sua vita le poche parole che scambiò furono con i suoi bugiardi aguzzini mascherati.
Nessuno mai potrà sapere che cosa passò nella sua mente e nel suo cuore in quelle interminabili ore di solitudine e di angoscia. Sono sceso in quel fetido bugigattolo sotterraneo, ho deposto un fiore sulla rete arrugginita dove passava le giornate, sdraiato. Ho pianto. Ho pregato. L’ho sfiorata come se fosse la reliquia di un santo. Ho avvertito una sensazione di vergogna, di dolore, di panico. Intorno a me, un’intera scolaresca col volto pallido e addolorato, con la quale, poi, ho potuto dialogare.
Il covo di San Giuseppe Jato deve diventare un luogo della memoria. Giuseppe Di Matteo deve entrare nei libri di scuola. Il suo martirio deve essere studiato e conosciuto dalle generazioni che verranno.
Sarebbe bello se il “pentimento” di Giovanni Brusca andasse al di là della semplice collaborazione con la giustizia e potesse essere veramente tale, davanti a Dio e agli uomini. Sarebbe bello se potessimo sentirgli chiedere perdono per tutto il male fatto alla sua terra, alla sua gente, alla sua famiglia, a se stesso.
Un nome mi rimbomba nella mente: è quello di Alessandro Serenelli, l’assassino di santa Maria Goretti, che si convertì e per tutta la vita tentò di riparare al male fatto.
Caro Giovanni Brusca, ti auguro di percorrere la sua stessa strada. Strada di luce e di speranza. Dopo averci trascinato con te negli orrori dell’inferno, abbi il coraggio, oggi, di volare alto, di respirare aria pura, di godere del prezioso dono della vita pur nella vita nascosta a cui sei inesorabilmente consegnato. Per quanto ti possa apparire strano, sappi che tanti cristiani pregano per te. Anche per te Gesù Cristo è morto e risorto.
Maurizio Patriciello.
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