Quello che ho imparato da te – un racconto di Benedetta Bindi
Quello che ho imparato da te
– “Qual è la cosa di cui hanno più bisogno gli esseri umani? Il desiderio sconfinato di essere ascoltati” (Eugenio Borgna, psichiatra)
Carlo ha trentasette anni, l’aria seria, cammina dritto con passo veloce, chi lo incontra per la strada potrebbe pensare a un’atleta, un velocista. Invece è un otorino, corre perché ha voglia di arrivare il prima possibile dal suo analista, così anche se è in anticipo, si muove lesto. La sola idea di mettere piede nella sala d’attesa gli calma l’animo. Guarda il cielo mentre citofona al dottore, non c’è una nuvola, la mimosa all’angolo della strada è in fiore ed emana tutto il suo profumo, il sole scalda ma non troppo.
È una perfetta giornata di primavera, una contraddizione che a lui pare scandalosa, tra la perfezione della natura e il dolore che prova per la perdita di un amico, il suo migliore amico. Sale le scale con la testa piena di parole da dire, con le lacrime che spingono dagli occhi come fossero mare , e le palpebre una diga che le
trattiene. Si siede sul divano grigio della sala d’attesa, guarda un quadro che non aveva mai notato nelle sedute precedenti. Una donna africana, vestita con una stola giallo a righe rosse, porta un vaso sulla spalla, ha lo sguardo lieto. A lui sembra essere la stessa donna raffigurata sulle carte del mercante in fiera, l’ultimo gioco fatto insieme a Roberto, durante le vacanze di Natale. Sente uno schizzo di allegria colpirgli l’anima, ricorda che con la medesima carta lui si è accaparrato il premio più alto. Erano in molti quel giorno al tavolo dal gioco, la somma intascata considerevole. I fischi contro di lui forti, da stadio, tutti in coro che urlavano: “Domani offri l’aperitivo bastardo”. Come restano fisse certe immagini!
Il vociare, i sorrisi, la felicità che inebriava la sala, se avesse potuto comprarla adesso, come si fa per un vestito l’avrebbe fatto immediatamente, anche a costo di perdere tutto ciò che aveva. La decisione di farsi vedere da uno psicologo l’ha presa un mese fa, senza dire nulla a nessuno, quando la sua relazione con Gaia è giunta all’epilogo. Dormiva male, aveva la pressione alta, l’apatia cronica, doveva reagire. Così una mattina ha deciso di porre fine alla sua relazione dopo quattro anni di convivenza, una scelta difficile. Si è guardato dritto negli occhi uscito dalla doccia, ha tolto da dentro di sé e dallo specchio la condensa che gli vietava di vedere, ha detto a Gaia: “La vita è troppo breve, il tempo troppo prezioso per sprecarlo in una relazione che rende entrambi insoddisfatti”. Lei l’ha presa male, gli ha sbattuto la porta in faccia andandosene, convinta che lui avesse un’altra donna. La casa dove vivevano insieme è di Carlo, un attico meraviglioso che era stato di sua nonna Antonella. In un primo momento lui si è sentito libero, con tutto quello spazio ma è durata poco questa sensazione, quattro giorni al massimo, poi il baratro, i dubbi su ogni cosa, l’ansia.
Quando sente la porta dello studio aprirsi, raduna i suoi pensieri e si concentra su ciò che ha da dire. Esce una donna molto bella dall’aria felice, lei gli fa un cenno con la mano, poi lo guarda decisa e sorridendogli scappa via. Potrebbe seguirla, domandarle il suo nome, ma non è il tempo e tantomeno il luogo adatto. Poi la voce profonda del medico lo colpisce come fosse accetta e lui il tronco, un colpo secco nel momento esatto nel quale si stava alzando: “Roberto entri?” Pensa di aver capito male, rimane immobile sul divanetto senza respiro, poi il dottore si affaccia allo stipide della porta sorridendo: “Mi scusi Carlo, mi sono confuso con il paziente dell’ora successiva, si accomodi”. Si alza frastornato, è sempre stato un uomo razionale, anche troppo, ma non può fare a meno di pensare che è veramente una giornata densa di segni. Si siede e inizia a parlare di getto, come un attore appena si apre il sipario.
Carlo: “Roberto, il nome con il quale mi ha chiamato poco fa, era un mio compagno dalle elementari, il mio migliore amico. Ne parlo perché le cose più importanti della vita le ho imparate da lui, era straordinario dottore, ho saputo del suo decesso tre giorni fa, un infarto me l’ha portato via, aveva la mia età. L’ho perso proprio quando lo stavo per raggiungere, sarei dovuto andare da lui tra dieci giorni, avevo nel cassetto i biglietti dell’aereo, spesso li prendevo tra le mani, immaginavo quando lo avrei rivisto. L’ultima volta che ci siamo sentiti al telefono, con l’esattezza sette giorni fa, mi lamentavo della routine che trovo nel lavorare, che forse era meglio se facevo veterinaria, che sono fatto per stare più con le bestie io, con le persone sono un disastro, riesco a renderle infelici. Mi sono lamentato di Gaia, il peso delle sue aspettative, la richiesta continua di un figlio. Ho omesso che l’avevo lasciata, volevo farlo di persona, guardandolo negli occhi. Roberto riusciva sempre a usare parole che mi entravano dentro, mi mettevano a nudo. Sì lui mi scopriva, non mi copriva, non mi accontentava, era duro, diretto. Spesso mi ripeteva: “Carlo il tuo mondo non è l’unica forma del mondo, la tua lingua non è l’unica al mondo. Pensi che staresti meglio isolato da tutti o con un’altra donna? O cambiando città? O facendo un altro lavoro? Che non si ricreerebbero sempre i soliti problemi? Quello che cerchi è sempre insoddisfacente, perché non sei in pace con te stesso. Ogni mattina il cappuccino è sempre quello, Carlo, ma a te ricordo che piace scendere al bar sotto casa, e fare colazione lì, perché ogni volta è
nuovo. Sant’Agostino diceva che amare quello che si ha è la beatitudine. Carlo ti dico il segreto della mia felicità, che a molti pare ridicola, io voglio che ogni giorno sia lo stesso di questo giorno. Anche la sofferenza se capita, la dono a Dio, ma se non credi la puoi donare all’universo, alle stelle, a chi vuoi tu”.
È sempre stato così tra noi. Lui il maestro, io l’allievo. Lui cristiano, io ateo convinto. Roberto era un filosofo, si è sentito attratto dal sacerdozio durante l’ultimo anno di Liceo. Aveva avuto anche due ragazze, piccole storie, ma era andato fino in fondo, insomma ha capito…Poi nell’estate della maturità ha deciso di andare in missione in Africa, per capire davvero cosa voleva fare della sua vita. Io pensavo si stancasse dopo qualche mese, lo trovavo molto abitudinario, coccolato dalla mamma, le due sorelle, invece … Tornava solo per Natale o d’estate, per stare con i suoi, per vedere gli amici. Io sono andato tre volte da lui in Niger, e due in Tanzania dove si era stabilito da due anni. Mi mandava spesso foto circondato da bimbi, sempre magro, forse più di loro, allegro come lo era sempre stato. Dal primo giorno che ci siamo conosciuti ho impresso negli occhi, la sua gratitudine nei confronti della vita.
Il primo ricordo che ho di lui è di un bimbo alto, al primo banco, con un grembiule enorme, dal quale usciva un collo lungo, e le mani secche con le dita affusolate.
Aveva occhi neri, distanti e grandi, molto attenti a non perdersi una sola parola della maestra, con una gioia nell’imparare le cose che gli invidiavo. Io invece odiavo la scuola, per me tranne le ore nelle quali c’era matematica o scienze, è sempre stata un supplizio. Mi muovevo frenetico nel banco, il corpo agitato, i pensieri che mi bollivano in testa ed esplodevano come lava di un vulcano. Al liceo è stato anche peggio, pensavo alle ragazze, o a cosa avrei fatto il sabato sera, o al motorino che volevo. Ero diventato completamente sordo, come alcuni miei pazienti, vedevo le bocche dei professori muoversi veloci, ma non le sentivo. Roberto invece perennemente sorridente, concentrato anche di lunedì mattina, il giorno da me più odiato della settimana, quando avrei preferito sprofondare dentro al letto fino a mezzo giorno. Era gentile con tutti, in tanti si approfittavano di lui, faceva le versioni di latino a molti compagni. Io gli dicevo di non farsi usare, lui rispondeva con un passo del vangelo: “E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta?”. Io non lo capivo, alcune volte mi sembrava un’alieno. Io ero bravo nei calcoli, ma non riuscivo a dare una mano a coloro che non sopportavo. Ad esempio Sarah che era una ragazza bellissima e guardava tutti dall’alto in basso, come se lei provenisse da un altro mondo, migliore rispetto al nostro. Godevo nel vederla persa davanti alla verifica di geometria, o Alfio, fiero nel suo metro e novanta, un campione di nuoto a livello nazionale che pensava di essere il più fico della scuola, però per svolgere un’equazione alla lavagna impiegava tutta l’ora, e spesso nemmeno gli veniva. Io seduto al banco avevo gli occhi che mi brillavano di gioia e un sorrisetto ironico, se Roberto mi vedeva mi fulminava con lo sguardo. Lui mi rimetteva sulla giusta strada, era la mia bussola e io mi perdevo spesso, ma lui ritornava sempre da me. Non so nemmeno io il perché, non sono interessante, sono permaloso, chiuso e anche egoista. Quante volte lo cercavo…..Roberto frequentava spesso la chiesa vicino al Liceo, conosceva tutti, e tutti lo conoscevano. Ricordo che molte domeniche andavo a mangiare all’oratorio, solo per stargli vicino, pensavo questo bastasse per farmi diventare più consapevole, e anche un po’ più altruista. Mentre lui aspettava sempre che mi convertissi. Non l’ho mai fatto ma lui non ha mai smesso di volermi bene”.
Carlo si arresta e scoppia in un pianto silenzioso, il dottore annota su un blocchetto. C’è una grande finestra nello studio, bella, quadrata, dagli infissi di legno, come non se ne vedono più. Carlo guarda il cielo mentre le lacrime continuano e scendere, uno stormo di uccelli vola in alto, poi scende in picchiata e risale con uno slancio . A lui pare disegni l’iniziale del suo nome. Si asciuga le lacrime con naturalezza e riprende a parlare. Carlo: “Roberto mi insegnava ogni volta come si sta al mondo. Sa, anche lui ha attraversato una brutta crisi, dopo sette anni in Africa ha conosciuto Bethaine, vedova con tre figli. Per lei ha deciso di abbandonare l’idea di farsi prete e l’ha sposata. Deciso com’era non ha più guardato indietro, io invece lo faccio costantemente, per moltissime cose. Una caratteristica di noi insicuri. A me ora dottore mancano le passeggiate con il mio amico, i film visti insieme, ma soprattutto le discussioni, Gaia poi… anche lei mi ha lasciato un vuoto, devo togliere da me le mie paure bambine, come mi ha detto lei, sradicarle come fossero radici malsane. Vorrei rinascere, essere un altro. Gaia mi manca tanto, tantissimo, la rivorrei al mio fianco. L’ho chiamata per dargli la notizia della morte di Roberto, voleva venire da me, le ho detto che avevo bisogno di stare solo, anche se avevo voglia di abbracciarla. Mi sento bloccato, in uno stato senza tempo. Lui è costantemente presente nella sua assenza, anche se guardo il cielo lo vedo, riconosco il suo volto in una nuvola”. Carlo si asciuga gli occhi con naturalezza.
Dottore: “ Carlo ci vuole del tempo, non esiste tempo rapido, “serve un supplemento di tempo” diceva Freud nel lutto. Viviamo in un’epoca che desidera dimenticare immediatamente, del tutto e subito. Il lutto deve avere memoria, bisogna avere il tempo di ricordare chi non è più tra noi, Carlo. L’esperienza della morte è sempre prematura. La morte viene sempre troppo presto. È sempre contro natura, Carlo, ma l’accetti. Lui resterà con lei, ma non le impedirà la vita. La luce può trapelare dalla polvere, Carlo. Il famoso pittore Giorgio Morandi, l’arista che dipingeva vasi, bottiglie, sgridava le sorelle quando lucidavano i suoi oggetti, non voleva, diceva che la luce è nella polvere, dal buio nasce la luce”.
Il medico alza gli occhi all’orologio posto in alto, al centro della stanza, Carlo capisce che è finito il loro tempo. Carlo: “Ha ragione, ci proverò. Alla prossima settimana dottore”.
Si alza, paga, poi passando nella sala d’attesa, dove vede seduto sul divano un uomo alto e magrissimo. Porta gli occhiali, sono tondi con la montatura rossa, gli sorride. non solo ha lo stesso nome, pensa Carlo, ma è esile come Roberto e il suo volto s’illumina nel medesimo modo. Ma non è lui, inutile illudersi. Con lui tutto era perfetto, entravano e uscivano nei pensieri dell’altro al solo guardarsi. Con la convinzione che non gli capiterà più con nessun altro, scende rapido le scale e esce in strada. Fermo al semaforo rosso, guarda una ragazza al suo fianco. Ha un bel volto, la coda, e un cappotto arancione. Tiene stette le maniglie di un passeggino, è felice e orgogliosa del suo bambino, gli rimette in bocca il ciuccio che gli è sceso giù, anche se lui non piange, lei l’anticipa. Figli…. magari ne farà uno anche lui, alza gli occhi, è verde può andare. È stanco del suo freno a mano perennemente inserito, ha deciso di toglierlo mentre sorride al piccolo, sente le gambe veloci attraversare sulle strisce, un passo dopo l’altro celere, perché la vita va avanti, anche se si sente come se gli avessero graffiato l’anima. Pensa alle ultime parole di Roberto: “ L’amore non è un elettrodomestico, se le cose non vanno, aggiustale, mica puoi sostituirle, Carlo. I sentimenti non sono merce. L’amore è fatica, sudore, non è una linea piatta, non conosco nessuno che abbia amato e non porti una cicatrice ”.
Questa è stata la sua ultima frase, ricordarla gli ripulisce lo spirito. Chiama Gaia al telefono, alza gli occhi al cielo e pensa a lui, mentre gli sudano le mani.
Benedetta Bindi