I miei occhi e le sue mani – un racconto di Benedetta Bindi
“Così stai bene! Guarda che lineamenti che hai, sembri disegnata”, me lo ripeteva sempre nonna Paola, quando mi legava i capelli, mentre io storcevo la bocca davanti allo specchio. Mi sentivo costantemente inadeguata. Mi faceva una coda di cavallo stretta come piaceva a lei, perché io avevo l’abitudine di coprirmi il volto. Avevo tanti capelli rossi, che mandavo in avanti cercando di nascondermi, avrei voluto ridurmi in cenere, come quella che mio padre cospargeva nei posaceneri della casa, facendo arrabbiare mia mamma. Lui non li svuotava mai e il salotto ricordo puzzava perennemente di fumo, come fossimo in una bisca.
Ricordo che durante la mia infanzia mi vergognavo di non essere come le altre bambine, mi sentivo una ciambella senza buco: io non ci vedevo, loro sì. Portavo degli occhiali dalla montatura nera, che trovavo immensi per il mio piccolo volto. Evidenziavano il mio difetto, lo virgolettavano in grassetto, mentre io desideravo solo cancellarlo. Gli aveva scelti la mamma, e con lei non si discuteva.
Adesso con mia figlia litighiamo per tutto, anche per cosa cucinare. Sono mutati i tempi, o forse siamo una generazione incapace di dare ordini, perché ne abbiamo subiti troppi e non li sopportiamo più. Con i miei genitori il broncio era vietato, come lo era essere infelici, per motivi che loro ritenevano futili, ma che io sentivo come chiodi conficcati in una mano. L’empatia non era il pezzo forte, né di mia madre e tantomeno di mio padre. Essendo figlia unica, non avevo nessuno a casa con il quale condividere i miei problemi. Stringevo forte Mia, l’accarezzavo, ma i suoi consigli erano solo dei prolungati miagolii. Invece quando rimanevo sola con nonna Paola, cosa che accadeva soprattutto durante le vacanze estive, mi sfogavo. Lei mi ripeteva che un giorno avrei gettato i miei occhiali nella pattumiera, perché con la maggiore età, avrei fatto un’operazione e la mia miopia sarebbe sparita. Cosa che poi si è avverata. A quel tempo però pensavo che fossero soltanto chiacchiere, che i medici, la nonna, i miei genitori mi dicevano per farmi stare tranquilla. Così sprofondavo sempre più nei miei abissi. Mi sentivo la persona più infelice della terra. Non serviva a nulla che nonna Paola pronunciasse frasi consolatorie, il mio senso d’inadeguatezza, che ora a quarant’anni trovo oggettivamente ingiustificato, mi tormentava senza tregua, derubandomi della gioia che una bimba deve avere.
Ricordo l’estate nella quale il mio corpo iniziò a dare i primi segni di mutamento, il passaggio tra le elementari e le medie, nella nostra casa di villeggiatura al mare, stesa sul dondolo del giardino, mi toccavo il seno. Sentivo due noci sul petto e nella testa tanta confusione. Era come se avessi un’altra Anna dentro di me, e non sapevo chi fosse. La spiaggia era diventata più crudele che mai. Sognavo una bella influenza, o la varicella che non avevo ancora avuto. Invece stavo bene e la nonna ogni giorno mi portava allo stabilimento, perché i miei erano al lavoro. Se provavo a dirle che preferivo leggere o disegnare in giardino, lei mi diceva che l’ombrellone e la cabina costavano molto, bisognava sfruttarli. Poi iniziava la predica: “Lo sai che tanti bambini non vanno nemmeno in villeggiatura? Smettila di fare i capricci”. Aveva ragione, ma io ancora non lo comprendevo, così uscivo dal cancello di casa diretta allo stabilimento, con un passo da marcia funebre. Mi tuffavo nel mare con le amiche, ci divertivamo, ma dopo aver fatto il bagno, i capelli mi aderivano come una muta, appiccicandosi al mio corpo magro coperto di lentiggini, con una lieve peluria sul pube, e con due piccole palline da ping pong sul petto, che coprivo indossando il costume intero. Non mi sentivo a mio agio
con il due pezzi, quello che Carlotta e Giovanna portavano con disinvoltura. Gli occhiali poi erano una piaga, dovevo rimetterli appena uscita dall’acqua, altrimenti vedevo tutto sfuocato, mentre sognavo che gli altri vedessero così me. Le mie amiche sorridevano felici allo specchio, posizionato vicino alle cabine. Erano soddisfatte delle prime forme che iniziavano a spuntarci, ballavano, facevano le smorfie, o gli sguardi da modelle. Le invidiavo. Leggere loro, pesante e afflitta io.
Avevo quasi undici anni e stavo male. “Sto male” me lo dicevo molte volte, ci sono cresciuta con quella frase, ho sempre saputo le ragioni del mio star male, era tutto perfettamente chiaro nella mia testolina. Poi quell’estate m’innamorai. Si chiamava Jerom, era un ragazzino francese, suo nonno era italiano, e anche suo papà. Giocava a calcio al campetto dello stabilimento. Trascorrevo molto tempo sotto il sole per vederlo, avrei voluto essere io il suo pallone, per come ne aveva cura. Erano inseparabili, anche se giocava a flipper, o prendeva un gelato, lo teneva sempre vicino a sé. Ricordo che lui mi salutava sempre con un cenno della mano, io lo guardavo e abbassavo la testa, sperando che i capelli mi scendessero in avanti e coprissero almeno in parte, la montatura degli occhiali. Io non ero come le mie amiche, così mi allontanavo, senza nemmeno provarci a scambiar due parole, convinta che, se l’avessi fatto, lui avrebbe avuto il tempo di osservare quanto ero inadeguata rispetto a lui, rispetto al mondo.
Il senso d’inadeguatezza che spesso ci portiamo dietro, non è veramente il nostro. È di tutti quelli che ci hanno preso in giro, non ci hanno amato. O ci hanno amato male. Così capitava spesso, durante quell’estate, che andassi sotto l’ombrellone dalla nonna, e mi mettessi a leggere trattenendo le lacrime. Sapevo che Jerom poi sarebbe passato davanti a me, a volte mi salutava e correva a tuffarsi in mare, per togliersi di dosso il sudore della partita. Giocava in acqua con altri ragazzini,
io fingendo di essere immersa nel mio romanzo, invece sprofondavo nei suoi sorrisi spiati. Era bello, era luce che mi balzava nel petto, aumentando il battito del mio cuore. In quei momenti mi dimenticavo di me, per questo ero tanto felice. Poi lui scappava a mangiare al self service, con suo nonno, mentre io andavo a
casa. Poi una mattina mentre facevo il mercatino, vicino alla cabine, con tutti i giocattoli che noi non usavamo più, un’usanza che si ripeteva ogni estate, come i tuffi e i ghiaccioli, insieme alle mie amiche, accadde l’imprevedibile. Jerom si avvicinò a me, aveva una maglia bianca con un numero stampato in rosso, non ricordo quale, però a distanza di trent’anni ho ancora ben chiara tutta la scena. Si fermò con due amici a osservare i bracciali che facevamo con dei cordoni colorati, comprati dal ferramenta. Lui ci chiese il prezzo, poi mi disse: “ Vedo che ci guardi spesso giocare, noi siamo in nove oggi, ci manca il portiere, lo faresti tu?” Io sentii un calore diffondersi sulle guance, poi risposi: “Ma porto gli occhiali, senza vedo male”. Lui si avvicinò a me, me li sfilò, si sputò su entrambe le mani e le avvicinò alle mie palpebre, senza toccarle. Carlotta gli urlò contro : “Ma che fai? Sei scemo?!”, io ero ferma immobile, sentivo il calore delle sue mani sul mio viso, e non capivo più cosa stesse accadendo. Lui rispose con il suo accento francese, che alla messa la domenica il prete aveva detto che Gesù, aveva guarito così un cieco, che magari avrebbe funzionato anche con me. Le mie amiche e i suoi amici scoppiarono a ridere. Io ammutolì. Jerom non si scompose, ci guardò tutti con il volto serio e disse: “Ci vedi meglio Anna?”, sapeva il mio nome anche se io non glielo avevo mai detto. Sentivo il cuore balzarmi fuori dal petto, l’avrei voluto mettere nelle sue mani e regalarglielo per sempre. Risposi un tenue: “Sì”, poi mi misi in piedi, perché eravamo sedute a gambe incrociate per terra, sia io, che Carlotta e Giovanna e lo seguì al campetto. Ogni passo che facevo, era come se appoggiassi i piedi sulle nuvole, e sentivo le farfalle nello stomaco, ma non erano quelle che avevo mangiato a pranzo. Lasciai gli occhiali sul muretto, e piano piano mi convinsi che vedevo meno sfuocato, senza le lenti. Quando la palla mi si avvicinava riuscivo a respingerla. Non era importante che ai miei occhi fosse nitida, per stopparla con le mani.
Nei giorni seguenti se ero in squadra con lui, m’irrigidivo in tutto il corpo, per l’attenzione che ci mettevo. Dovevo fermare ogni pallone, era come se ne andasse della mia esistenza . Dovevo far vincere Jerom, se succedeva lui mi batteva la sua mano nella mia. E quel contatto per me era la vita. Arrivavo la sera stremata, il corpo dolorante, e qualche segno di pallonata sulle gambe. Mi addormentavo prestissimo. Mia nonna si accorse che stavo cambiando, non mi lamentavo più, non avevo più il muso, e ogni giorno volevo scappare al mare. Stavo sempre con le mie amiche, ma la maggior parte del tempo la passavo al campetto, loro non ci rimanevano male, anzi mi seguivano e si mettevano a guardare le partite. O meglio a guardare i ragazzini. Nonna Paola non mi diceva nulla, anche se trascorrevo ore sotto il sole cocente, sapeva che avevo un debole per Jerom, perché spesso, per non dire sempre, gli parlavo delle sue capacità sportive. Mia nonna sicuramente pensava che quel ragazzino francese, mi avesse guarito, e in qualche modo l’aveva fatto. Germogliò in me la convinzione che lui ci tenesse a quella secca bambina quattrocchi che ero. Aveva provato a guarirmi. Mi sentivo ogni giorno più sicura, e anche più carina. Ma le cose belle non durano per sempre. Se ne andò improvvisamente, dopo ferragosto, anche se sapevo che doveva partire in ogni caso prima di me, come mi aveva detto, perché le scuole a Parigi iniziano prima che in Italia. Suo nonno mi disse che suo figlio era arrivato la sera prima, ed era ripartito al mattino presto, senza dare a Jerom il tempo di salutare i suoi amici. Una partenza anticipata per motivi di lavoro, una cosa che trovai crudele, per me, per lui, senza darci nemmeno il tempo di salutarci. Non ho visto più Jerom. Nonna Paola, che conosceva tutti in quel piccolo paesino di mare, seppe che durante l’inverno suo nonno morì, e i suoi genitori preferirono vendere la casa. Non ci scambiammo mai un bacio, lui aveva solo un anno più di me, forse mi vedeva troppo piccola, insicura, ma mi voleva bene, lo capivo dal modo nel quale mi guardava. E il gesto di sputarsi sulla mani, anche rischiando di essere deriso da tutti, fu la conferma che io per lui esistevo! Fu la cosa più importante che potesse fare per me.
Ora che ho quarant’anni e una figlia di quindici, a volte penso ancora che tutto l’amore che conosco, possa ridursi a quello sputarsi sulle mani di Jerom, e mettere i suoi palmi sui miei occhi. E ho sempre ricercato, nella mia vita, quell’emozione che lui quel pomeriggio di luglio mi ha provocato. Ancora adesso non potrei
giurare, di averne più provata una uguale.
Benedetta Bindi