cultura

Nei suoi occhi – un racconto di Benedetta Bindi

                                      “Insegnami a scordarmi di pensare.”
                                              W. SHAKESPEARE

“Perché?” una domanda che Silvia ripeteva in testa come fosse un motivetto ascoltato alla radio, mentre parcheggiava l’auto nel suo comprensorio al posto 57. Posizionò il cambio sulla P, poi infilò la mano sotto la canottiera di lino verde. Rotolini di pancia si adagiavano uno sull’altro, come fossero pasta sfoglia, procurandole un rigo di sudore,  che lei con un gesto meccanico del pollice destro tirò via veloce immaginando fosse crema. Odiava l’aria condizionata, preferiva sentire caldo, piuttosto che rischiare un mal di gola. Prese dalla borsetta di pelle rossa, una salvietta umidificata e si pulì le mani. Era un caldo venerdì di giugno, i condomini o partivano o uscivano a divertirsi, lasciando la piscina libera. Bastò questo pensiero a distrarla. S’immaginò in acqua, illuminata dalla luna, a nuotare nel più assoluto silenzio. Questa idea le parve immediatamente la più grande punizione che potesse infliggere a se stessa perché non poteva negare che avrebbe desiderato non essere sola in acqua. Così oltre all’angoscia che gli incidenti stradali ultimamente le procuravano, doveva fare i conti anche con i suoi desideri. Quelli che per anni era riuscita a reprimere. Da quando aveva divorziato, ogni uomo che conosceva si portava sulle spalle problemi con figli ed ex mogli, rovinando tutto, anche la voglia di trascorrerci insieme la notte. Sicuramente lei aveva i suoi difetti, i suoi problemi, ma non li metteva in mostra come fossero belle gambe. Così la scelta di stare da sola le era venuta naturale, come coprirsi quando si ha freddo. Solo da qualche mese alla soglia dei cinquant’anni, l’impulso alla vita era esploso in lei, pari a quello di Alberto, suo figlio adolescente. Estrasse dal portabagagli due pesanti buste della spesa, pensò che avrebbe fatto meglio a farsi dare una mano,  ma ogni volta cadeva nel medesimo errore e faceva tutto da sola, come d’abitudine, quella alla quale non aveva mai opposto resistenza, tanto che si era trasformata in necessità. Non farsi aiutare da nessuno, appagava il suo orgoglio, quello di bastare a se stessa. Appena entrata in casa, due occhi chiari si fecero  largo nella sua mente.

Era accaduto tutto quel mattino, prima di aprire il negozio. Aveva notato nella via parallela, legati a un semaforo, un mazzo di fiori e l’immagine di un giovane volto che sorrideva alla vita che aveva perso. Assomigliava a un ragazzo che vedeva ogni tanto la mattina passeggiare con un grosso cane nero al guinzaglio, davanti alle sue vetrine. Era bello, alto ed esile, con gli occhi grandi e malinconici. Ogni tanto si fermava a guardare i manichini. Poi lo vedeva andare via, un po’ curvo, sotto il peso dei suoi pensieri. Forse desiderava un figlio? Cosa lo spingeva a osservare tutine da bebè colorate o abitini a righe? Le sarebbe piaciuto cadere nei suoi desideri. Al suo ricordo aveva parcheggiato, e si era catapultata al bar per domandare a Davide, il barista, informazioni su quel bellissimo mazzo di rose legato al palo, poco distante da lì, insieme a una fotografia. Quando gli era stato confermato che era proprio lui l’uomo nello scatto, il figlio di alcuni suoi clienti, aveva avuto un giramento di testa. Si era appoggiata al bancone e aveva afferrato una grossa ciambella, posta in un contenitore di plastica, imputando a un calo di zuccheri il suo sbandamento. Non aveva chiesto nemmeno il solito caffè, ed era uscita mentre il barista la guardava corrucciato.

Silvia aveva camminato lentamente per non perdere l’equilibrio, indossava un leggero vestito color cobalto, una borsetta a tracolla del medesimo colore e dei sandali bassi color ambra. Era molto elegante, ma non nel modo nel quale affondava la sua bocca famelica nella soffice pasta, tenuta stretta con le dita della mano destra. I suoi denti schiacciavano lo zucchero con rabbia, ne sentiva il rumore, come fosse un nemico da annientare. Era maledettamente turbata, da non rendersi conto che il suo volto si era cosparso di tanti puntini bianchi, che brillavano al sole, proprio come le succedeva da bambina quando mangiava una ciambella. Era ipnotizzata dalla strada, quel flusso continuo di motorini e macchine, quella vita frenetica che viviamo, e che con altrettanta velocità pensò, possiamo perdere da un momento all’altro. Aveva gettato nel cestino il tovagliolino, l’unica cosa rimastagli in mano, con un gesto di stizza, come fosse una colpa da dimenticare. Si era diretta nel suo negozio, aveva aperto le saracinesche inserendo la chiave nella serratura, poi si era seduta dietro al bancone, in silenzio. Avrebbe voluto urlare ma le mancava la voce, si era spenta in una stanca melanconia. Aveva preso a riordinare sugli scaffali, piccoli maglioncini colorati, sentiva il bisogno di fare qualcosa. A pranzo andò a mangiare un’insalata, per bilanciare il peccato di gola del mattino, con Anna la proprietaria della cartoleria. Una tipa esile, bellissima, con un volto illuminato dalla sua esuberanza, che la faceva divertire moltissimo con le sue rocambolesche storie d’amore. Arricchiva di particolari i suoi racconti, che alle orecchie di Silvia, avevano il potere di accendere i suoi più reconditi desideri. Davanti agli occhi celesti della ragazza, al gesticolare delle sue mani curatissime, lei  si perdeva ogni volta.  Anche quel giorno infatti non era riuscita nemmeno a dirle dell’incidente del ragazzo. Sommersa dalle parole di Anna, dimenticava le sue. Pensò che in tutta la sua vita, gli uomini con i quali era andata  a letto, a quella giovane donna,  non sarebbero bastati in un anno. Invidiava il suo modo di approcciarsi alla vita leggero, che si rispecchiava nel suo aspetto. Silvia ogni anno che passava si sentiva sempre più pesante, nel fisico nei pensieri. Era diventata paurosa, spigolosa, con sprazzi di desideri dei quali si vergognava. Preferiva riporli nei cassetti del negozio, insieme alle tutine da bebè, piuttosto che viverli. Anche quel giorno quando si salutarono lei le disse: ”Vorrei avere la tua testa Annina per qualche ora, sai quanto mi divertirei!” Lei invece era entrata in cartoleria facendo una smorfia della sua bocca perfetta, come se quello che le succedeva non aveva nessun peso, convinta che l’uomo che desiderava, l’avrebbe trovato solo nei suoi  sogni. I suoi fidanzati infatti erano un particolare della sua vita, dopo qualche mese l’annoiavano e ci metteva una croce su, come fossero giorni passati di un calendario.

Dopo  pranzo Silvia aveva lavorato tutto il giorno, l’arrivo del gran caldo portava le mamme a comprare costumi, cappelli e asciugami, solo poco prima di chiudere il negozio l’immagine di quel ragazzo le era ricomparsa in mente, mentre mostrava dei vestitini a una mamma elegante, che teneva per mano una bimba imbronciata, dispotica e viziata. Muoveva in continuazione la testa da destra e sinistra, a ogni abito che lei le mostrava. Così mentre tirava giù mezzo negozio, per soddisfare la piccola cliente, le domande si accanivano nel suo cervello, come fossero persone urlanti durante una manifestazione. “Perché quel  ragazzo aveva sfidato la sorte passando con il giallo? Aveva bevuto un bicchiere di troppo? Oppure era nervoso, perché aveva litigato con la sua  ragazza? Perché il tipo con il camion non l’aveva visto per tempo e l’aveva travolto? Aveva bevuto anche lui?”  Ogni spiegazione che si dava, le poneva un’altra domanda. Solo di una cosa era certa Silvia, quella notizia era stata la conferma delle sue ossessioni. I suoi “No” risoluti alle richieste di suo figlio di avere un mezzo di trasporto, erano la scelta giusta. Le liti ormai quotidiane con lui, la sfinivano e le rendevano tutto insopportabile, soprattutto la vista di sciarpe, pupazzi, fiori, che vedeva legati ai semafori, agli alberi, lungo le strade. Ogni oggetto parlava della persona scomparsa, indicava il luogo esatto dell’accaduto, ma mostrava anche le sue inclinazioni, come se i parenti rendendole visibili a tutti, pensassero di renderla eterna. Lei con le immagini del telegiornale, era riuscita per un certo tempo a mantenere un certo distacco, mentre le sfilavano sotto gli occhi scene raccapriccianti di corpi recuperati in mare, donne uccise, guerre, incendi, inondazioni. Il cibo le scivolava dritto nello stomaco, insieme a quell’orrore senza opporsi. Poi un giorno non ne era stata più capace :il mondo così com’era faceva a pugni con la sua digestione. Ora preferiva non accendere la tv e mettere della musica di sottofondo, per assaporare con calma i piatti che cucinava con passione. Solo che si possono chiudere gli occhi per le cose lontane, ma è impossibile per quelle vicine. Silvia in auto guidava e vedeva sempre nuovi indizi di persone scomparse in un incidente. Le sembrava di essere tornata bambina, quando sul trenino degli orrori del luna park, un vampiro sbucava da una porta, o un fantasma usciva da un baule, il suo cuore accelerava dalla paura. Con la differenza che adesso la finzione si era tramutata in realtà.

Ripose parte della spesa nella dispensa, e lasciò vicino al piano cottura i suoi preferiti: gli spaghetti numero 5. Aveva sentito dire da un grande chef in televisione, che erano tra le dieci cose da portare su un altro pianeta.  Voleva condirli con pomodoro e basilico. Un lusso che si concedeva al massimo due volte a settimana, da quando la sua pancia aveva iniziato a prendere il sopravvento. Il cibo era diventato un conforto per lei. Da quando era divorziata, seguiva corsi online, guardava trasmissioni a tema, comprava libri di ricette. La sua specialità però erano i dolci. Recentemente però lo zucchero non compensava più quello che le mancava, e l’assalivano desideri improvvisi. Come quello di fare l’amore con un papà affascinante al quale mostrava dei pantaloncini per il figlio, o con  il tipo silenzioso che era venuto ad aggiustare il condizionatore. Mise la pentola sul fuoco, e aprì la finestra della cucina che dava sul giardino. Era soddisfatta dopo una giornata di lavoro, chiusa tra quattro mura, di rasserenarsi alla vista di una porzione di verde. Le costava una fortuna di condominio, ma ne valeva la pena. Non mancava mai di pensare che fosse stata una tra le scelte migliori della sua vita. Era soddisfatta dopo una giornata di lavoro, chiusa tra quattro mura, di rasserenarsi alla vista di una porzione di verde. Soprattutto per Alberto aveva scelto di stare lontano dallo smog, in un comprensorio con piscina e campi da tennis. Le costava una fortuna di condominio, ma ne valeva la pena. Le sue amiche le rimproveravano di vederla poco, da quando aveva lasciato la casa in centro, ed era vero. Lavorava, si dedicava a suo figlio, e usciva solo il sabato sera o la domenica. Diventare madre l’aveva cambiata parecchio, le sue priorità erano cambiate, nessuno gli aveva imposto nulla. Ogni decisione della sua vita era stata presa, senza farsi condizionare da nessuno. Aveva ereditato da sua zia il negozio di abbagliamento. Aveva lasciato economia e commercio, e seguito la sua passione: vendere vestiti. Aveva deluso i suoi genitori, sicuramente, ma non se stessa. Si era sposata con Corrado poco dopo averlo conosciuto.  Un tipo del quale sapeva poco, conosciuto a una festa. L’aveva impressionata il suo stare zitto in mezzo alla confusione, seduto su un divano accanto alla finestra del salotto, con una giacca di velluto blu, i capelli neri,  le labbra grosse e la sigaretta messa di traverso al labbro inferiore. Le era parsa una figura carica di mistero, profonda, con dei piedi grandi, infilati in dei mocassini piuttosto vissuti. Aveva immaginato fosse da lì che si capiva la solidità di una persona, dalle radici. Invece nel tempo suo marito si era rivelato solo un punto interrogativo, che si domandava cosa fare nella vita. Era insoddisfatto del suo lavoro di grafico, sentiva l’abbattimento dell’insuccesso, gli si riversava nel volto triste che si aggirava nella casa spegnendo anche i giorni più lieti. Lui era incapace di fare il padre e il marito. Era concentrato su di se, su i suoi successi personali, che non arrivavano e lo condannavano all’infelicità.  Così il loro rapporto era finito dopo pochi anni, e non di morte naturale. Ma per i suoi musi lunghi e i ripetuti tradimenti. Silvia al limite dell’esaurimento nervoso, l’aveva buttato fuori casa, aveva lasciato l’appartamento in centro, aperto un mutuo, ed era andata a vivere con il suo bambino di sette anni, in quel bel condominio fuori città. Tutto era filato liscio per parecchio tempo, poi era scattata quella cosa brutta, che non vorresti arrivasse mai, perché come la calza della befana sul fondo ci trovi il carbone: “l’ adolescenza!”

Erano giorni che le veniva spesso di pensare a un momento specifico del parto, in cui la madre ha la sensazione che se non lo lascia andare, il proprio bambino possa morire soffocato. Perché il figlio viva deve essere abbandonato, non serve solo la cura soffocante ma anche quella sorta di abbandono. Ecco lei provava la stessa sensazione, avrebbe voluto lasciare libero Alberto di sbagliare, di bocciare, tornare tardi con un mezzo suo. Era stanca di dirgli di studiare quando lo vedeva steso sul letto con il telefonino, o di recuperarlo di notte a eventi, o compleanni. Quando era giovane lei si doveva arrangiare in tutto: a scuola, se usciva la sera, magari non sarebbe mai diventata quella che era adesso, se i suoi le fossero stati sempre dietro. Certo non si sentiva completamente risolta, ma capace di affrontare la vita da sola sì, senza dover dire grazie a nessuno. Suo figlio crescendo ce l’avrebbe fatta? Se lo ripetea spesso, fino all’ossessione quando lo vedeva perdere tempo, invece di vedergli il volto affondare sui libri.  Voleva dare ad Alberto la stessa educazione che aveva ricevuto ma era bloccata, impaurita, come un’ elastico che si allunga e poi ritorna al punto di partenza. E poi c’erano le bestie grigie che gli comparivano in sogno la notte: i pali. Apparivano di continuo facendola vacillare, ricordandole che sulla strada si moriva. L’acqua iniziò a bollire, buttò gli spaghetti. Mangiò avidamente due piatti di pasta, il suo e quello di Alberto, che aveva preferito mangiare una pizza fuori con gli amici. Si ritrovò da sola, così doveva riempire il buco che si allargava dentro di lei come una voragine, ogni volta che pensava alla furia con cui il tempo a disposizione, le stava scivolando via. Tra un mese avrebbe compiuto cinquant’anni. Provava rabbia, o forse era tristezza, non lo sapeva più nemmeno lei. Andò a farsi una doccia. Si asciugò velocemente, era ancora bella, anche con qualche chilo in più, il seno grosso, le gambe lunghe e piccole rughe che come schizzi si adagiavano sul suo viso, non alterando la sua grazia, ma aggiungendo una nota interessante che solo gli anni possono rendergli. Non asciugò i ricci biondi, tanto le arrivavano all’altezza del collo, li tamponò con  un asciugamano di lino, con incise le sue iniziali, ricordi del suo corredo. Indossò una canottiera bianca, dei pantaloncini celesti, poi si stese sul divano, e si mise a guardare un film.  Dopo un po’ tirò fuori dal frigo, una vaschetta di gelato. Tanto la dieta era andata a farsi fottere con tutta quella pasta, tanto valeva, pensò, godersela fino alla fine.  Si mise sul divano a gambe incrociate, una cosa che le riusciva facile, dopo sei anni di yoga, e ne andava fiera. Mentre cucchiaiate di crema le scivolavano nello stomaco osservava sul televisore John Turturro, pensando che un tipo come lui fosse il suo ideale, ma non riusciva a distrarsi. Sentiva che era arrivato il momento di decidere. Alberto trovava passaggi dagli amici, i suoi “No”, non l’avrebbero protetto, e poi stargli troppo dietro non era salutare nè per lui nè per lei, tanto valeva accontentarlo. Prese a battersi l’incisivo destro, con l’unghia della mano sinistra, una cosa che faceva sempre quando era nervosa. Vide due film di seguito, ma seguendoli poco, la sua testa era un turbinio di pensieri costanti, non riusciva ad arrestarli. A mezza notte le venne la voglia di fare un bagno in piscina. L’acqua aveva il potere di calmarla. Si infilò un due pezzi turchese, le infradito di gomma , e si attorcigliò al seno un leggero asciugamano bianco di ciniglia. In piscina nuotò parecchio. Pensò che se non l’avesse fatto, sarebbe morta sotto il peso delle sue angosce. Era stata una giornata pesante, la foto al mattino di quel ragazzo era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Salì le scalette e si stese sul lettino. Guardava il cielo scuro, avrebbe voluto sapere tutto di quell’infinito. Confrontandosi con quella vastità che la faceva sentire piccola e le sue paure innocue. Poi un vociare indistinto arrivò fino a lei. Vide suo figlio seguito da due amici, era felice che fosse tornato a casa prima del previsto, ma avrebbe desiderato rimanere un po’ sola a guardare le stelle. Si arrotolò l’asciugamano intorno alla vita, e infilandosi le ciabatte si diresse verso casa.  Alberto sopraggiunse e si fermò a due passi da lei, che lo guardò con due occhi sbalorditi, come se fosse stata sorpresa a rubare. Suo figlio le disse: “Ma’, hai fatto il bagno a quest’ora?”, lei gli rispose:” Sì, era un caldo a casa , vi giuro non si respirava” quasi si volesse giustificare, , lui la guardò con un espressione, nella quale era stampata la domanda se sua mamma non fosse impazzita.

Silvia s’incammino verso il vialetto, poco dopo le urla di divertimento dei ragazzi,  giunsero fino a lei. Mentre cammina maledicendo l’amministratore del condominio, per la poca luce sulla stradina a ridosso della piscina, vide sbucare da un cespuglio una massa nera. Era un cane di grossa taglia, scuro. Dalla paura si fermò immediatamente facendo un balzo indietro. Lui la guardava con degli occhi gialli, immobile. Silvia sentiva il suo respiro: II cane aveva la bocca aperta, forse dal troppo vagabondare, lei poteva vedergli la lingua lunga e i denti affilati. L’animale a un tratto le venne vicino, sentì la sua grossa coda sbattere sulle sue gambe, era pietrificata, non riusciva a dire una parola, le girò la testa. Amava gli animali, ma quel cane non aveva collare, aveva il pelo arruffato. Pensò fosse un randagio. D’improvviso sentì la sua lingua ruvida salire dalle sue caviglie, lentamente  fino al polpaccio, prima piano, poi sempre più veloce. Si ricordò dell’olio di mandorle che aveva messo dopo la doccia, probabilmente l’acqua non l’aveva eliminato del tutto dalla sua pelle. Prese tutto il coraggio che aveva e iniziò a carezzarlo sulla testa. Il suo pelo era stoppaccioso, si sentiva che era sporco. Stette così forse qualche minuto, poi iniziò lentamente a camminare. Un estraneo vedendoli avrebbe pensato che era la padrona con il suo cane, tanto l’animale la seguiva come fosse la sua ombra.  Arrivata al cancelletto di casa, lo aprì felice come un corridore che arriva  per primo al traguardo,  e lo richiuse subito. Andò dritta verso la porta, poi sentì l’impulso di girarsi.  Lui era seduto sulle zampe posteriori e la guardava, in silenzio. Alla donna si attorcigliò lo stomaco, gli occhi gialli del cane erano due richieste umide e silenziose. Non abbagliava, ma a lei parve la interrogasse sulle sue paure.  Rimase qualche secondo in piedi, con i capelli bagnati, l’asciugamano umido, immobile sapendo che desiderava che lui non se ne andasse. Eppure poteva entrare in casa, nel suo porto sicuro e sbattere la porta.

Non vi era alcun rumore intorno, oltre al battito del suo cuore, mentre si dirigeva verso l’animale,  tanto da non sapere più se fosse vero o se lo  stesse sognando. Nei suoi occhi lei vedeva il suo mondo, per questo era certa di una cosa: lui sarebbe rimasto ad aspettarla, se lei quella notte non fosse arrivata .

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