Il ruolo fondamentale che riveste l’evento dell’incarnazione nell’opera dantesca.
L’evento dell’Incarnazione riveste un ruolo fondamentale nell’opera di Dante. Dal Convivio (IV, V, 3) alla Monarchia (I, XVI, 2) la nascita del Verbo coincide con la pienezza dei tempi paolina e legittima il governo e il ruolo provvidenziale dell’Impero.
Nella Commedia, dalla dimensione storica si passa a quella escatologica, che viene tratteggiata nel canto VII del Paradiso: l’atto d’amore della bontà divina («al Verbo di Dio discender piacque», v. 30) viene a riparare il peccato commesso da Adamo e a restituire all’uomo la nobiltà perduta, opera così grande per la quale non ci sarebbe stata altra via «se ‘l Figliuol di Dio / non fosse umilïato ad incarnarsi» (vv. 119-120).
Ma se Paradiso VII è il canto che tratta del dogma dell’Incarnazione, ce n’è un altro nel quale si concentrano diversi riferimenti che ne fanno il canto natalizio della Divina Commedia.
In Purgatorio XX, sulla cornice degli avari, protagonista è Ugo Capeto, capostipite dei re francesi, la «mala pianta» (v. 43) che corrompe tutta la Cristianità ed è nemica di quell’unico potere che per Dante può assicurare la pace nel mondo, appunto l’Impero. È dalla sua bocca che il Poeta ascolta esaltare il primo esempio delle virtù contrapposte all’avarizia, cioè la povertà e la generosità:
«per ventura udi’ “Dolce Maria!”
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;
e seguitar: “Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo”» (vv. 19-24).
L’anima invoca Maria, come fanno le donne nei dolori del parto, costume del tempo, e contempla proprio la Vergine, che è «povera» perché partorisce Gesù («portato santo») nella stalla di Betlemme: questa è detta «ospizio» come altrove Pier delle Vigne chiamerà la corte imperiale di Federico II («l’ospizio / di Cesare», If XIII 66) dalla quale l’invidia non distoglie mai gli occhi: come il peccato è capace di rendere tale l’Impero, così il Verbo lì doveva incarnarsi per salvare tutto l’uomo.
Più avanti i due pellegrini, dopo aver sentito tremare il monte per l’avvenuta purificazione di Stazio, sentiranno le anime purganti intonare «Glorïa in excelsis Deo» (v. 136): è il canto degli angeli alla stalla di Betlemme in Luca 2,14, che nella liturgia risuona alla mezzanotte del 25 dicembre. La reazione di Dante e Virgilio è di stupore:
«No’ istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto» (vv. 139-140).
I due rimangono meravigliati proprio come i pastori che per primi ascoltarono quel canto nella notte di Betlemme. Dante cerca di rendere il “timore magno” evangelico (Luca 2,9) da cui furono presi i pastori alla venuta dell’angelo con i due aggettivi «immobili e sospesi»: essi esprimono sì una condizione di immobilità e dubbio ma nella Commedia qualificano sempre lo stato di stupore di fronte a un mistero di natura divina, tanto da essere usati solo nel Purgatorio e nel Paradiso, fino alla beatifica visione, dove Dante dirà che la propria mente «tutta sospesa, / mirava fissa, immobile e attenta» (Pd XXXIII 97-98).
In questo canto, con il parto di Maria nella stalla, il canto degli angeli e la reazione dei pastori Dante costruisce il suo “piccolo presepe” e lo fa nella cornice in cui si purga il vizio dell’avarizia e si esalta la povertà: a fronte di questa semplicità, però, le parole usate lasciano trasparire il mistero di quest’avvenimento nella sua connotazione storica, l’Impero, e divina, la meraviglia. Ma incastonato tra questi versi c’è anche un altro interessante riferimento che salta agli occhi del lettore moderno. Dante sente che Ugo Capeto:
«parlava ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza» (vv. 31-33).
Il terzo esempio di povertà e generosità è San Nicola, Vescovo del IV secolo di Myra e patrono di Bari. La tradizione, di cui Dante avrà certamente letto nella “Legenda Aurea” del domenicano Iacopo da Varazze, racconta che il santo era venuto a sapere delle tre figlie di un uomo caduto in disgrazia, sul punto di essere prostituite dal padre stesso, e aveva deciso di aiutarle lasciando di nascosto tre sacchi di monete, che avrebbero costituito la loro dote, restituendo alle «pulcelle» una vita onorevole e dignitosa. Veramente interessante che Dante, tra gli esempi di povertà e generosità, accosti accanto alla scena di Betlemme quel San Nicola dal quale, secoli dopo, verrà mutuata la versione del moderno Babbo Natale.
Il parto di Maria, il Gloria e i pastori di Betlemme, insieme alla generosità di San Nicola, sono gli elementi che rendono Purgatorio XX il canto natalizio della Divina Commedia, il quale si conclude con Dante che lascia la cornice in ansia per il desiderio di capire quegli avvenimenti: egli riprende il suo «cammin santo» (v. 142), come “santo” era Gesù “portato” nel grembo di Maria, e si sente come non mai desideroso di sapere ma, non potendo chiedere né riuscendo a capire da solo, se ne va «timido e pensoso» (v. 151), come un cristiano di fronte alla grandezza e insieme all’umiltà del mistero dell’Incarnazione.