famiglia

Portare un figlio con sé in un viaggio di lavoro

Proprio ieri ero a Rimini per partecipare al convegno che Edizioni Centro Studi Erickson tutti gli anni organizza a novembre. In viaggio, da Varese verso Rimini ero al telefono con Barbara, mia moglie. “Ti ricordi quante volte, quando i figli erano piccoli e noi dovevamo parlare al convegno di Rimini, li abbiamo portati con noi?”. Ci siamo messi a ricordare un tempo in cui conciliare gli impegni di vita, di lavoro e di famiglia ci ha spesso fatto decidere di non lasciare i figli a casa, anche se – vista da fuori – quella sarebbe stata la scelta più indicata per loro. Molte persone guardavano con simpatia la nostra famiglia che provava a trovare un suo modo per tenere insieme tanti pezzi complessi di una vita che è accaduta con così tante cose che nessuno ci aveva insegnato come tenere insieme. Così, giorno dopo giorno, noi abbiamo provato a costruire “il nostro modo” per riuscirci. Molti ci vedevano in questi convegni in cui prima parlava la mamma e poi parlava il papà. Ci alternavamo al microfono. Uno stava con i bambini, mentre l’altro parlava e poi…. cambio di ruolo e di posizione. In tanti provavano simpatia. Altri di certo facevano pensieri ben differenti: “Ma non potrebbero stare più attenti a non sottoporre quei bambini a stress e fatiche esagerate? A frustrazioni evitabili?”.

Sì, forse avremmo potuto stare più attenti. Ma è andata così. I nostri figli parlano ancora delle loro trasferte e Rimini di novembre e non sembra che abbiano brutti ricordi. Delle trasferte novembrine a Rimini ricordano di aver mangiato le piadine più buone della loro vita oppure di essere rimasti incantati di fronte ai bellissimi presepi di sabbia che lì vengono preparati da artisti provenienti da tutta Europa. Ricordano le colazioni in albergo e di come – ogni volta che si entrava in una stanza d’albergo – c’era la sorpresa di vedere come sarebbe stata. Parte della nostra storia famigliare noi l’abbiamo scritta viaggiando. Ce lo chiedeva il lavoro e abbiamo trasformato questa esigenza in un modo per conciliare famiglia e lavoro. Di sicuro i nostri figli hanno subito qualche stress fisico in più. Ma hanno anche messo via tanti ricordi che non avrebbero avuto se fossero rimasti tranquilli a casa con un/una baby sitter o con un/una nonno/a. Le tante cose che sono state scritte sul viaggio della Premier Meloni con la figlia al seguito, secondo me, non tengono conto del fatto che ogni genitore, nella conciliazione famiglia-lavoro, fa delle scelte che servono a tenere insieme tante cose in un mix che ogni famiglia intuisce essere la migliore per sé. Sarà la figlia della Premier, tra un po’ di anni, a dire se questo viaggio con la mamma è stato più fatica o più meraviglia. Ma anche in una prospettiva educativa, penso che potrebbe essere una scelta valida proporre ad una bambina di sei anni un’esperienza così fuori dall’ordinario.

Il viaggio aereo intercontinentale che per noi adulti potrebbe apparire solo come “una gran fatica” per una bambina di sei anni potrebbe rappresentare un’avventura incredibile. E far uscire di tanto in tanto i bambini dalla loro “comfort zone” per vivere un’esperienza eccezionale potrebbe rappresentare un ottimo esercizio di allenamento alla vita. Mi ha molto colpito l’attacco che da più parti è arrivato alla Premier su questa sua scelta di madre. E sono ancora più colpito nel constatare che le parole più rigide spesso gliele hanno riservate altre donne e madri. Nelle critiche che le sono state rivolte mi è sembrato che venissero valutate in modo negativo troppe cose: la sua strategia di conciliazione famiglia-lavoro, l’uso strumentale della figlia per dare di sé l’immagine di buona madre, la non consapevolezza di come un figlio non c’entri nulla con una funzione così impegnativa in cui tu devi essere presente solo – o soprattutto – come carica istituzionale. Troppa roba. Probabilmente anche la Premier imparerà cosa è meglio per lei e per la sua bambina, giorno dopo giorno, facendo tentativi ed errori. Credo che abbia diritto, di fronte ad un compito nuovo per lei e la sua vita, di “provare sul campo” come tenere insieme il ruolo di madre e quello di Premier. E penso che tutto questo non sia in contrasto col ruolo istituzionale che ricopre. Scrivo tutto questo al di fuori di ogni considerazione politica.

Avrei scritto la stessa identica cosa se la Premier fosse stata leader di un partito della sinistra. E qui, scusatemi l’affondo, mi chiedo se molte donne avrebbero scritto le stesse cose nel caso in cui la Premier fosse appartenuta ad un’altra fazione politica. Costruire nuovi modi per abitare una nuova cultura di genere non è facile. Ci dobbiamo provare tutti insieme. Al d fuori di ogni ideologia. Dentro la realtà viva e pulsante delle nostre vite. Il dibattito è aperto.

Alberto Pellai

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