Gesù il Buon Pastore
La liturgia della Parola di questa domenica ci presenta un’immagine di Gesù molto suggestiva: quella di Gesù il Buon Pastore, di cui parla il Vangelo. E la figura di Gesù il Buon Pastore fa di questa domenica la giornata mondiale di preghiere per ottenere alla Chiesa il dono di vocazioni sacerdotali e religiose. La Chiesa di tutti tempi ha sempre bisogno di pastori buoni che, sull’esempio di Gesù, si dedichino senza riserve al bene spirituale delle comunità cristiane.
Tuttavia, l’immagine del (buon) pastore non sembra in sintonia con la nostra mentalità moderna, poco abituata alla pastorizia. Istintivamente, si può facilmente pensare alla scena dei famosi pecorini di Panurge; oppure al pericolo di un conformismo gregario in cui la persona scompare, inghiottita dalla collettività, fino a smarrire la propria identità. Questa triste esperienza non è certo il stile del gregge pilotato da Cristo.
Il suo stile è proprio diverso di un dissolvimento nella collettività. Non si tratta di seguire passivamente il movimento generale, nell’indifferenza o nella pigrizia. La comunità costituita dal gregge di Cristo mira un apporto personale e dinamico che superi l’individualismo e il conformismo gregario. Gesù è il buon pastore perché ci guida attraverso sentieri giusti (Sal22, 3). Egli raduna, assista e protegge il suo popolo. Conosce i pericoli che minacciano le sue pecore e lotta contro tutte le forze avverse. Va alla ricerca della pecora smarrita e non si stanca mai di chiamare i dispersi.
Poiché, come dice il salmo responsoriale (99, 5), eterna è la misericordia del Signore, e la sua misericordia è per ogni generazione. Dichiarandosi il buon pastore, Gesù esprime una rivendicazione messianica universale Il pastore nella letteratura universale è una figura tradizionale della guida, politica e religiosa, di una comunità. E la messianità si riferisce al liberatore promesso. Gesù appare quindi come un Pastore pieno di sollecitudine e ricolmo di misericordia per le pecore perdute, senza pastore.
Tutti questi tratti sono stati riuniti dal quarto Vangelo nell’allegoria del Buon Pastore. Allo stesso modo, i credenti hanno visto in Gesù, il Pastore definitivo, venuto per pascere in maniera eminente il suo popolo, in luogo delle guide infedeli alla loro missione, e radunare tutti in un solo gregge. Però all’ultimo giorno, Egli lo radunerà di nuovo per il giudizio.
Intanto, alcuni pastori, di cui Pietro è il primo (Gv21, 16), secondo il brano di domenica scorsa, sono incaricati di vegliare con sollecitudine sulla Chiesa e di andare a cercare le pecore smarrite e di difendere il gregge dai lupi, come Cristo. A loro volta, le pecore o il gregge ascoltano la sua voce (come pure quella dei suoi inviati) e lo seguono. Per seguire Gesù, bisogna essergli uniti interiormente. La sequela di Cristo suppone, quindi, un’affinità spirituale con il suo insegnamento, con la verità, che è via e che dà la vita eterna.
Don Joseph Ndoum
Appartenere, sinonimo del verbo amare. Lo sanno bene gli innamorati e tutti coloro che, almeno una volta, hanno permesso alla vita di forzare il cancello serrato del loro cuore, e spalancare le porte a un legame, un’amicizia, una gioia condivisa. Amare significa appartenere — in un legame di libertà e non di possesso — a colui o colei che si ama, cioè conoscere nel profondo, ascoltare la sua voce anche nel silenzio, seguire l’a l t ro fino in fondo e ovunque.
Ecco i tre verbi che Gesù usa, in questi pochi versetti del Vangelo, anzitutto per dirci che la fede è un racconto d’amore, è la storia di un incontro personale tra un Dio innamorato e la tua vita. Siamo noi ad averla spesso ridotta a norma, a doveri, a sacrifici da compiere ma, invece, il nostro Dio si presenta come colui che ci riempe di vita. Come un pastore con le sue pecore, Egli ci conosce per nome e nella nostra unicità, ascolta le domande e i desideri che si levano dal nostro cuore, ci segue nel cammino della vita come discreto compagno di viaggio, qualunque sia la strada che percorriamo. Allo stesso tempo, Egli ci chiama: siamo conosciuti e amati, perciò siamo chiamati ad ascoltarLo. A fidarci della sua promessa d’amore: niente e nessuno ti strapperà dalla mia mano. E, dietro questa promessa di felicità, seguirLo.
Ricordo le parole del cardinale Martini: «Per conoscere bene una persona non ci si può accontentare del sentito dire: dobbiamo dialogare con lei a quattr’occhi. La cosa straordinaria del nostro dialogo con Dio è che se all’inizio sembriamo noi a incominciare a parlare con Lui… infine scopriamo che pregare è ascoltare Dio che parla con noi».
In queste tre parole, allora, c’è la mappa della nostra vita. L’annuncio straordinario che, alla fine, vivere è una questione di legame: conoscerci, ascoltarsi, seguirsi l’un l’altro nella gioia della condivisione e della cura reciproca. Vale nei confronti di Dio, ma anche nelle nostre relazioni umane: nelle famiglie, nelle amicizie, nelle comunità religiose, nella società, assistiamo alla dissoluzione dei legami o, tuttalpiù, legami fragili, frammentati, spesso feriti, talvolta spezzati. E invece la gioia consiste nel rinsaldare la relazione con Dio, con i fratelli, con il mondo che ci circonda. Ci sono miracoli — ha detto Papa Francesco pochi giorni fa in Bulgaria — che accadono quando siamo capaci di condividere.
Un invito per la nostra vita personale, ma anche per la Chiesa e per la società: impariamo di nuovo la grammatica dei legami. Lì c’è una promessa di felicità e di vita.
Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano, p. 1