Mottarone: quando il giornalismo ignora il rispetto per la sacralità della vita e della morte
No, a che serve? Che cosa quelle orribili immagini del crollo della funivia del Mottarone, aggiungono o tolgono alla corretta informazione? Come tante altre famiglie italiane, mercoledì scorso, anche a casa mia stiamo per metterci a tavola, quando, improvvisamente, a nostra insaputa, ci ritroviamo catapultata nella tragedia che costò la vita a 14 persone.
Ho visto, Angelina, mia cognata, girarsi verso la cucina, coprirsi gli occhi con ambedue le mani ed emettere un grido di orrore; ho visto i nipotini sbiancare in volto; io stesso ho tentato di difendermi volgendo lo sguardo altrove, mentre dicevo tra me: « Ma, a che serve? Perché? » Il pensiero è subito andato al piccolo Eitan, unico sopravvissuto, ai cari parenti delle vittime. Se tanto male ha fatto a noi quel video, a noi che non abbiamo conosciuto quei fratelli e sorelle, quale e quanta inutile sofferenza avrà provocato in chi li amava? Nel nome di chi? Di che cosa? Il diritto all’informazione è cosa sacrosanta, il solletico fatto alla curiosità, no. La libertà di espressione è cosa buona e giusta, quando ci si esprime per rendere un pensiero, un concetto, per alimentare e sostenere un dibattito, senza mai provocare sofferenze inutili. Soprattutto a chi da quel dramma è stata segnato.
La censura è obsoleta, antipatica, insopportabile. A nessuno piace essere censurato, è vero. Eppure, c’è un però. Perché sarebbe sempre giusto censurare la censura, se ognuno di noi, in particolare chi sa di condizionare con lo scritto o con la telecamera, se ognuno di noi, dicevo, facesse ricorso a una sorta di benedetta autocensura, quell’autocontrollo che è figlio della buona educazione e del buon senso, che ci impedisce di fare il male e ci costringe sempre e solo a cercare di fare il bene.
Anche sui social, soprattutto nelle pagine aperte di illustri giornalisti, il filmato sta girando. E si sa, il mondo del web, proprio come la mafia, ha la memoria lunga. Non perdona. Il diritto all’oblio è ancora da venire. Una memoria talmente lunga che, quando meno te l’ aspetti, ti riproporrà, anche a distanza di anni, lo scempio accaduto nella primavera di quest’anno.
Sono sempre rimasto impressionato nell’osservare la gente affollarsi dopo un terribile incidente stradale. Il mese scorso, in una stazione ferroviaria in provincia di Napoli, una giovane si tolse la vita, gettandosi sotto il treno. La stazione, naturalmente, fu chiusa, mentre i Vigili del fuoco, le Forze dell’ordine e il personale ferroviario facevano il loro duro e faticosissimo lavoro. Passavo lì per caso, quando notai moltissime persone, soprattutto giovani, arrampicarsi sulle inferriate del recinto per “vedere” una scena davvero straziante. Rimasi esterrefatto. Era quella una scena da evitare a tutti i costi.
Purtroppo, il gusto per il morboso può aggredire chiunque, ma non deve essere alimentato a sangue e mente freddi da chi ha la responsabilità professionali, proprio all’ora di pranzo, quando la famiglia è riunita attorno al tavolo, il piatto fuma, e si comunica con i propri cari. Benedetto giornalismo, prezioso per la crescita della libertà e della cultura, non sostituirti agli inquirenti, lascia a loro il peso e la fatica di visionare quelle scene strazianti, non gettarle, inutilmente, in pasto a tutti.
Te lo chiede, innanzitutto, il rispetto per la sacralità della vita e della morte. Te lo chiedono i parenti delle vittime, che per anni dovranno portare il pesante fardello di quella giornata di primavera inoltrata, che spezzò in due le loro esistenze. Te lo chiedono i ragazzi, i giovani, i bambini, che oltre ad informare hai anche il diritto e il dovere di formare. Te lo chiediamo noi, semplici italiani che, soprattutto all’ora di pranzo e cena, accendiamo la televisione per ascoltare le ultime notizie. E non ce la facciamo a sopportare scene strazianti come quella del crollo della funivia.