Al capezzale di Sara si respira il mistero
« Padre Maurizio, vieni…». Capisco. Corro. Ad attendermi, avvolte in un alone di dolore e di silenzio, Lina e Giorgia, mamma e suocera di Sara. Nel letto, che ancora profuma di nuovo, la loro figlia si va spegnendo lentamente. Il cancro, negli ultimi mesi, le ha rubato tutto, lasciandole solo un flebile respiro e un impercettibile battito del cuore. Poco dopo arriva Gianni, il marito. Preghiamo insieme, sommessamente. Ungo Sara con l’Olio degli infermi, poi rimaniamo zitti, immobili. Stringo le mani di Sara tra le mie. Mani di bambina, diafane, piccole, delicatissime. Quanta tenerezza! In cuor mio non smetto di invocare san Giuseppe e la Vergine Maria. Gianni e Sara hanno dato vita a due bambine, troppo piccole per gestire un dolore così grande. Si decide di andare a prenderle a scuola e portarle da una zia: da un momento all’altro la loro meravigliosa mamma scioglierà le vele.
Padre Pio da Pietrelcina volle che all’ospedale da lui realizzato a San Giovanni Rotondo, fosse dato il nome di “ Casa sollievo dalla sofferenza”. Una casa dove il dolore è tenuto a bada, dove l’ammalato trova accoglienza, sollievo, serenità. Dove la speranza di poter guarire deve rimanere in vita fino all’ultimo respiro. Già, l’ultimo respiro, ma dopo? Che cosa fare dopo? Quando la malattia viene sconfitta si, ma non dalla guarigione, bensì dalla morte che, – cinica, pietosa, impietosa? – mette fine ai giorni della persona amata? In quel momento terribile e misterioso c’è ancora una parola da dire, qualcosa da fare, una vera consolazione da dare? Al capezzale di Sara si respira il mistero.
Ci sentiamo tutti catapultati in un mondo più grande di noi. Sentiamo sulla pelle il gelido fruscìo della morte che si aggira per le stanze. Sappiamo che con lei, tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Di fronte alla sua tremenda maestà tutto diventa piccolo, tutto diventa superfluo, tutto nobile. Finanche il peccato, per quanto sciocco, inopportuno e devastante, impallidisce e retrocede impaurito e rispettoso.
Guardo Lina, una mia vecchia amica, ricordo il giorno felice del suo matrimonio. Sara viveva allora soltanto nella mente del buon Dio. Presto fece capolino nel grembo della mamma. Un invisibile puntino che si trasformò e divenne embrione, feto, neonata. La bimba che nacque divenne donna, sposa, poi, a sua volta, mamma. E adesso? Che sta per succedere, adesso? Che accadrà all’invisibile puntino di soli quattro decenni fa? Per chi ha il dono della fede, la morte sarà l’ultima, grande, trasformazione. Da Dio veniamo a Dio ritorniamo.
Negli ospedali di un tempo, quasi sempre fondati dai credenti in vecchi monasteri, la cappella occupava il posto centrale e il prete per la celebrazione della Messa non mancava mai. Siamo chiamati a farci prossimo, a rimanere accanto, a dare sollievo. A fare di tutto per tentare di rendere innocui gli affilati artigli della sofferenza. Per addolcire e dare senso al momento del trapasso. Dobbiamo correre dove i fratelli e le sorelle soffrono per donare sollievo sempre, soprattutto quando la scienza, dopo aver compiuto l’ultimo, inutile sforzo, umilmente, si fa da parte, e confessa il proprio fallimento.
Confessiamolo: nascere per morire non è poi un grande affare; morire in giovane o in tenerissima età, poi, non lo è per niente. Davanti allo spettro della morte ogni parola diventa piccola, incompiuta; solo la fede in Dio Padre e nella resurrezione della carne donano vera consolazione. Sara ha consumato le sue ultime ore. E, come per incanto, il suo volto, sfigurato dal dolore, si è come disteso, rasserenato, addolcito. Illuminato. Il bruco è diventato farfalla. E ha preso a volare per i cieli infiniti, i tempi eterni.
Maurizio Patriciello