Cristo,la vera vite che dà frutto
Il brano evangelico di questa domenica si trova al centro di quel lungo colloquio di Gesù coi suoi discepoli, intessuto di raccomandazioni e confidenze, che viene chiamato «discorso d’addio» o «testamento spirituale» (cf. Gv13, 31;17, 26). Ci domina l’allegoria della vigna, che è un’ immagine classica dell’ Antico Testamento per indicare i rapporti che intercorrono tra yahweh e il popolo dell’ Alleanza : rapporti di cura, attenzioni, sollecitudini. Però, nonostante quest’ amore, la vigna (Israele) risulta ingrata, delude le speranze di Dio, non produce i frutti attesi. Uno dei testi biblici che illustra questa delusione divino è quello di Isaia 5, 1-7. sullo lo stesso tema si può anche leggere Ct1, 2-8; 17, 1-10; sal 80; Mc12 (Vignaioli omicidi)
Nella pagina odierna di Giovanni occorre notare una novità significativa : la vigna non è più un popolo, ma la persona stessa di Gesù (” Io sono la vera vite”); occorre registrare anche l’aggettivo “vera” che ricorre con insistenza nel quarto vangelo per indicare la pienezza della realtà attuale rappresentata da Cristo (il vero o buon pastore, il vero pane del cielo). Gesù, vera vigna, è quindi l’Israele perfetto che corrisponde alle attese del vignaiolo celeste. Ma questa vite non è destinata a rimanere sola. Cioè Cristo, “vera vite”, forma il popolo della nuova Alleanza, innestato sulla sua persona. Si tratta della Chiesa, che diventa in tal modo la nuova vigna di Yahwe, quella destinata ad essere all’ altezza dell’ amore, della cura e della sollecitudine di Dio. Però, vengono definite due esigenze irrinunciabili, espresse con due verbi tipici di Giovanni: rimanere e portare frutti.
Rimanere (o dimorare), nel quarto vangelo, indica qualcosa di più di un legame superficiale, occasionale, provvisorio, ed esprime una realtà profonda, un unione vitale, una “connivenza” duratura. Si tratta di dimorare nella Parola di Gesù (GV8,31), cioè bisogna che questa penetri nelle nostre arterie e venga assimilata fino a diventare la regola ispiratrice della condotta dei cristiani. Si tratta inoltre di dimorare in Gesù stesso (Gv6,56), cioè essere strappati a se stessi o decentrati ed avere la sua dimora e il suo centro, d’ora in poi, nel Cristo.
Lo scopo di tutto quanto è di favorire la fecondità del tralcio inserito nella vite (vera). Questo aspetto è posto in risalto dall’ insistente ripresa (sei volte) dell’ espressione ” portare frutto”. La condizione essenziale per arrivarvi è la comunione vitale con Gesù espressa dall’ invito :«Rimanete in me e io in voi». Infatti, i rami inseriti nella vite sono e debbono essere fecondi.
Questa mutua appartenenza (“rimanete in me e io in voi”) è anche la condizione per fare una preghiera efficace e per essere suoi discepoli : «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». La rivelazione effettiva della gloria di Dio coincide con il “portare molto frutto” e “diventare discepoli di Gesù”. Rimanere in Gesù”, il portare frutto” e “diventare discepoli di Gesù” sono quindi, dimensioni che si sovrappongono.
Il Cristo, la sua vita e il suo messaggio costituiscono dunque il terreno vitale in cui devono radiacarsi i cristiani e la Chiesa. Se si radicano altrove (nella forza, nel potere, nella ricchezza, nel prestigio, nel successo, nei calcoli umani, ecc) possono essere tutto meno che la vigna del Signore.
Don Joseph Ndoum
Prima lettura Atti 9,26-31 dal Salmo 21/22 Seconda lettura 1Giovanni 3,18-24 Vangelo Giovanni 15,1-8