Quale sarebbe la felicità dell’abortire?
È ormai noto che l’aborto volontario sia per la donna fonte di forte stress emotivo. Nella comunità scientifica si è concordi sul fatto che l’evento abortivo è in grado di produrre un quadro psicologico compatibile con il disturbo post-traumatico da stress (PTSD), la cui tipica caratteristica è – guarda caso – l’insorgenza tardiva: i sintomi del disagio possono infatti subentrare da pochi mesi a molti anni dopo l’evento scatenante, spesso a causa di fatti o circostanze che in qualche modo ricollegano all’evento.
L’iniziale risposta emotiva della donna può essere di sollievo, a cui può seguire una fase di evitamento del problema a causa della repressione e della negazione, che può facilmente durare mesi o anni (si arriva, secondo alcuni, anche oltre i 10 dall’evento). Ad un certo punto, però, i sentimenti negativi possono esplodere in tutta la loro virulenza.
La FELICITÀ promessa quale sarebbe dunque? Quella del momento? Quella della pacca sulla spalla? Quella in cui ti dici “era l’unica cosa da fare”?
Vogliamo riflettere e far riflettere le nostre amiche, alunne, figlie, ecc. sul fatto che “non avere altra scelta” significa già non compiere una scelta libera? Ma, soprattutto, vogliamo chiederci perchè la realtà scientifica sul post aborto non viene presentata? Maggiore consapevolezza uguale maggiore libertà, giusto?
O forse si teme che il “pilota automatico” si disinneschi e che la donna, riprendendo il vero “comando” di sè, ingrani la retromarcia e voli a tutto gas verso una felicità confacente alla sua persona, non senza ostacoli e difficoltà, ma per questo vera e piena?
Come dite? Questo smaschererebbe buona parte dell’ideologia abortista?? Già.
Giorgia Brambilla