Raffaele Cutolo, una vita senza lode ma con tanta infamia
La notizia della morte di Raffaele Cutolo ha fatto tirare un respiro di sollievo a molta gente. Non sono, infatti, certamente pochi coloro che hanno avuto a che fare con lui e che adesso occupano posti importanti nelle istituzioni. Costoro hanno vissuto con il fiato sospeso. Parlerà? Non parlerà? E che racconterà? La vita criminale di don Raffaele è sotto gli occhi di tutti; la sua fulminea carriera criminale, l’ ascesa al potere, il suo tormentato delirio di sanguinaria onnipotenza, l’ ossequio, o finto tale, degli antichi e nuovi camorristi, che lo hanno osannato, odiato, temuto è stato e sarà oggetto di studi negli anni che verranno. Non fu amato da nessuno, questo criminale che ha gettato la nostra terra nel terrore. Famoso il suo rapporto, quasi morboso, con Rosetta, la sorella più anziana che sempre gli fu fedele; una fedeltà, però, che niente aveva a che fare con l’ amore. Certo, perché chi ti vuole bene vuole il tuo bene. Una vita, la sua, passata per la maggior parte nelle patrie galere del nostro Paese. Nemmeno gli anni trascorsi in un terricante isolamente lo hanno piegato. Non si è mai pentito, non ha voluto rendere, nemmeno da morto, un servizio all’ Italia, per aiutarla a fare luce nei nodi velenosi tra camorra e pezzi dello Stato.
Gli storici che verranno dovranno fare chiarezza – per quanto possibile – sui rapporti intercorsi tra Cutolo e tanti uomini delle istituzioni, del potere politico, dei Servizi segreti. È giusto chiederci, oggi, a quali mulini hanno portato acqua i voti che Cutolo riusciva a manovrare? È giusto chiederci quanti e quali politici hanno fatto carriera grazie a lui e alla schiera dei suoi amici? L’ inganno che più gli fu fatale, la trappola nella quale cadde, fu la confusione tra il bene e il male. Tra le interviste da lui rilasciate, famosa è rimasta quella con il giornalista Enzo Biagi. Lui tra le sbarre, insieme al figlio Roberto, che verrà assassinato a 28 anni in Lombardia, nel 1990. Cutolo ripete a Biagi che la camorra sta a Roma, che lui non è un camorrista ma una sorta di filantropo, un benefattore dell’ umanità. Anche Rosetta ripeterà fino alla noia che suo fratello è una persona brava sempre pronto ad aiutare chi è nel bisogno. La camorra ha un affannoso bisogno di spazi vuoti da occupare. Come ogni topo, il camorrista balla quando il gatto dorme. Lo Stato, nella regione di Cutolo, è rimasto tante volte lontano, assente; altre volte poco si è curato delle collusioni e delle corruzioni dei suoi stessi uomini. Incapace di venire incontro ai bisogno della gente, ha lasciato aperti tanti interstizi, nei quali Cutolo, i suoi amici, i suoi rivali, camorristi e i mafiosi di ogni tempo, si sono inseriti.
«Ha fatto anche il bene» sento dire, con orrore, in questi giorni da qualcuno. No, questa è una menzogna allo stato puro; Cutolo, la sua cosca, le cosche nemiche, hanno fatto sempre e solo male. Tanto, tanto male. Hanno irrorato di sangue la nostra terra, hanno terrorizzato i nostri genitori, hanno umiliato la nostra gioventù, irriso alla nostra onestà. Tacciano oggi tutti coloro che da Cutolo hanno ricevuto aiuti, favori; taccia chi con lui ha fatto affari milionari. Non hanno il diritto di parlare. Non ha diritto di parlare chi dal suo ottuso silenzio ha avuto benefici; chi gli ha fatto da spalla, da prestanome. Non hanno il diritto di parlare i suoi adulatori e ingannatori. Cutolo non aveva il volto brutto e arcigno dell’ assassino. Al contrario, aveva avuto in sorte un viso, oserei dire, angelico; una voce tranquilla, serena, pacata.
A suo tempo tentò di strumentalizzare anche il coraggioso vescovo di Acerra, monsignor Antonio Riboldi. Chiese di volersi confessare con lui, don Antonio accolse la sua richiesta, si recò in carcere. Il mondo mediatico si mise in moto. Non ci volle molto all’ intelligente e buono vescovo rosminiano per capire che il camorrista non aveva nessuna voglia di confessarsi, ma solo voleva che si parlasse di sé. Riboldi, che non aveva paura di niente e di nessuno, si alzò, gli disse quello che il suo evangelico cuore gli suggeriva, e se ne andò. Povero don Raffaele, la Chiesa nella quale anche lui ricevette il Battesimo, oggi prega per l’ anima sua. E lascia al Signore della vita e della morte, Giudice giusto e misericordioso, l’ ultima parola. Una vita quella del Professore di Ottaviano senza lode, si, ma ricca di infamia. Una vita di menzogna, la sua. L’ ultima è scritta sui manifesti funebri affissi al suo paese. Vi si legge che « A causa del Covid sono vietate le visite». No, le restrizioni per i funerali ci saranno si, ma per volontà del Questore di Napoli, Alessandro Giuliano, figlio di Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo, ucciso a Palermo il 21 luglio del 1979. Giuliano aveva solo 49 anni, quando Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, gli sparò sette colpi di pistola. Alle spalle, naturalmente. I vigliacchi fanno sempre così.