Domenica 10 gennaio prima escursione 2021: dalle cascate di Monte Gelato attraverso la valle del Treja
La nostra escursione prende le mosse dalle belle e suggestive cascate di Monte Gelato, in territorio Falisco. La popolazione del luogo, poco dissimile da quella etrusca, abitava il così detto “Ager Faliscus”, territorio compreso tra i Monti Sabatini , i Monti Cimini, con confine sulla sponda destra del Tevere. Le principali città: Falerii Veteres (Civita Castellana), Fescennium (Narce-Calcata), Vignanello, Vallerano, Corchiano, Sutri, Nepi e Capranica. Sacro territorio che ha pagato per primo gli effetti devastanti della romanizzazione.
Il Fiume Treja che riceve le acque dell’immenso ed impensabile bacino idrico del Lago di Bracciano, per sbizzarrirle a scindere, poi, in mille sonori e gradevoli rivoli e piacevoli cascatelle. Luogo scelto da giovani coppie che giurano eterno amore al cospetto di verdi cupi, spumeggianti acque e damascati abiti da sposa.
Il nostro iter ci porterà al paese di Mazzano Romano, per poi dirigerci sotto Narce ed infine prossimi alla nostra Calcata.
La insignificante e coltivata piana con le sue notevoli abitazioni della classe abbiente romana, oltrepassa il verde di Monte Gelato e tutto il bacino del Treja.
Qui il paradiso sta per cominciare. Prospiciente le amene cascatelle, un’antica mola, con il suo incessante lavoro va a sfruttare il dislivello del pendio collinare, quasi inosservata tra l’alta vegetazione!
Inattiva dal 1960 … stanca, ha prestato servizio fin dal popolo Falisco, che l’ha progettata e costruita per macinare farro e grano, uve ed olive. Restaurata più volte nel corso dei secoli, e così, come ci si presenta, venne rimaneggiata nel 1830 per volere della Famiglia Del Drago. Lo stesso Casato che nel proprio patrimonio vanta l’Isola Bisentina nel Lago di Bolsena e tante altre proprietà, oltre al territorio di Mazzano Romano. Questi principi della Chiesa…!
Poi odierni restauratori hanno sapientemente ricostruito e rimesso in ordine le facciate esterne della mola, il meccanismo di molitura e creato all’interno degli ambienti una mostra sugli aspetti storici ed archeologici del complesso, posto pannelli interattivi sulla flora e fauna del luogo.
Il complesso idraulico e meccanico si presenta così senza destare sospetti di interventi “contemporanei”, anche l’occhio più attento ed esperto ne resta ingannato!
La fauna ittica del corso d’acqua elenca la lampreda, il cavedano, il barbo, il granchio ed il gambero. E’ qui, tra queste forre, che nidifica il gruccione, con la sua livrea sgargiante dal colore giallastro-blu metallico, dopo il suo incessante sorvolo del mediterraneo. Extracomunitario di rango, sverna in Africa per tornare puntualmente da noi in primavera. Mentre non è raro scorgere, a pelo d’acqua del fiume, l’usignolo, il merlo acquaiolo, il martin pescatore e l’airone cenerino. Per poter osservare questi discreti abitanti del bosco, ormai rari, prede di collezionisti, di cacciatori senza scrupoli e dei veleni dispersi dall’uomo nell’ambiente, occorre procedere con cautela, a passi felpati, senza far rumore. Non è il nostro caso. Il Gruppo procede felice e beato con un suo frastuono abituale.
Comprensibile il comportamento degli ultimi abitanti del bosco! Il rischio di finire, da un momento all’altro, imbalsamati su un camino di una villa è davvero tanto, seppur d’effetto duraturo, polveroso e poco onorevole!
Superata l’area della mola si procede cautamente lungo la sponda del Treja, tra forre elevate, vegetazione rigogliosa, pronunciate anse del fiume che qui scivola indisturbato quieto su un più largo letto. A tratti corre gorgogliante tra gole anguste, a presagire qualche lieve cascatella. Qua e la obliqui raggi solari tagliano il sentiero a mostrare la bellezza di reconditi angoli, resi ancor più belli e più profondi dai naturali e sempre diversi giochi di luce.
Al primo bivio si può risalire il sentiero fiancheggiante un affluente del Treja per portarsi alle fonti Virginiane. Ottima questa fonte di acqua frizzantina. Rigenera in un baleno le nostre energie perdute.
Poco più avanti si può procedere con passo più spedito. Dopo qualche chilometro si raggiunge la “fornace preistorica”. Questo reperto giunge a noi direttamente dal periodo del bronzo medio (probabilmente è qui da oltre quattromila anni), è una sorta di industria fossile. Sfruttando una prossima vena di ottima argilla sotterranea è passata di mano in mano senza soluzione di continuità per millenni.
Con stampi in legno, rettangolari a semicerchio ed altro, sono ricavati mattoni (pianelle) da essiccare al sole. Dopo un paio di settimane passaggio in fornace, con un fuoco di fascine per un tocco finale (così come il pane quotidiano nei forni a legna).
Ma il momento più bello però si presenta quando, dopo alcuni giorni, la temperatura del forno scende e viene estratto il prodotto. Le pianelle assumono colori molteplici e caldi, dalle varie tinte dell’ocra, alla terra di Siena, bruciata e naturale. E questo in funzione ai gradi di fuoco ricevuti, al tipo di legna combusta, alla disposizione all’interno del forno, al microclima del giorno. Gli architetti della capitale fanno incetta di questo ultimo artigianato, per la realizzazione di ville residenziali che richiedono pavimenti di un certo pregio. Ma oggi si nota un certo abbandono di questa interessante attività, fino a poco tempo fa molto attiva.
Procedendo ancora oltre, si incontra il primo insediamento del percorso, Mazzano Romano. Se ne avverte anticipatamente la presenza sul sentiero da qualche bottiglia vecchia o latta interrate, da materiale di risulta posto a ricoprire le buche del terreno e dalla folta vegetazione, cose che fanno molto male e che allontanano lo sguardo.
Qui le forre sono altissime, di quando in quando enormi tronchi di pioppi caduti, congiungono le rive del Treja, che ora si è fatto ancora più grande. I “bottegoni” riflettono parte del cielo e le pareti circostanti.
Il canto degli uccelli ci accompagna ovunque, ma non si percepisce dove sia il cantautore.
Si giunge a Mazzano. Le sue viuzze strette, così costruite per proteggere le abitazioni dalle asperità del tempo sono orientate ortogonalmente, secondo architetture Falische. Il pranzo, come di consueto viene consumato entro le mura dell’antica bella Chiesa diruta, progettata dal Vignola, situata nella parte alta del Paese.
L’opera venne demolita nel 1940, perché minacciava di crollare dopo che un fulmine aveva colpito il suo campanile alto ben 25 metri. Restano in piedi solo abside-parete sud e le lunette laterali.
Un panino imbottito, un bicchiere di vino allungato, forse una grappa polacca, un caffè e qualche dolcetto, tanto per dire di aver iniziato la dieta di domenica, una volta tanto!
Mentre nugoli di gracole con il loro volteggiare beate nel cielo del paese, sfiorano il fiume, i tetti delle case, alberi e rocce. Ovunque si ode il loro sgraziato “cra-cra”, se ne infischiano del COVID, delle crisi economiche, e del blocco delle attività produttive.
Lasciato il tempio, si giunge radicalmente nel centro del territorio Falisco. Si ripercorre la sponda sinistra del Treja, per raggiungere la strada asfaltata ed imboccare il sentiero alberato che ci porta nel suburbio del meraviglioso paese di Calcata. Qui recuperiamo le nostre vetture e raggiungiamo Calcata per una piacevole escursione nel paesino. I più arditi percorreranno il bel Fosso della Mola di Magliano che, dopo un centinaio di metri, un grazioso ponticello porta a raggiungere la nostra meta finale.
Appena raggiunta la strada asfaltata, quasi del tutto inosservato, ci si presenta il primo viadotto artificiale che la storia ci tramandi. Opera Falisca del V secolo a.C. collegava Monte Li Santi a Narce. Due colli opposti, distanti tra loro circa 1.000 metri. Sul primo si trovava un insediamento abitativo e relativa necropoli, sul secondo un tempio che tanti richiamava. Purtroppo, quando nel 1960 si costruì la strada provinciale che collegò Calcata al resto del mondo, l’opera venne abbattuta. Il viadotto era lungo 150 metri ed alto 30.
Ancora oggi si può vedere quel che resta, i punti di attacco degli imponenti massi di tufo disposti a filari.
Visita della città “rivista” dall’arch. Palo Portoghesi, minuscole vie, poste a raggiera, dipananti dal centro alla immediata periferia a mostrare inopinatamente panoramiche vertiginose e mozzafiato. Qua e là negozi entro bugigattoli di un tempo, disseminati tra minuti quartieri abbarbicati sulla rupe cadente, che invitano a sbirciare dentro. Maghi mal vestiti, santoni, affabulatori e fattucchiere con lunghe gonne zingaresche e capelli sciolti, incolti sulle spalle.
E’ qui esposto artigianato, non più antico, del paese. I vecchi abitanti ormai sono passati ben oltre. I giovani son andati via. Il Paese, per nostro piacere, è stato lasciato tutto “tel quel”, e “tel quel” qui lo abbiamo ritrovato. Così “Il Granarone”, il “Forno a soccio”, la “Caciera” e il “Forno venale” e, nella chiesa parrocchiale, il Santo Prepuzio di Gesù!!!
Non si trascuri nessun angolo riposto, anche a costo di divenire inopportuni e molesti nell’invadere. Correre anche il rischio di farsi leggere la mano da qualche marpiona divenuta cartomante all’ultimo momento per necessità! L’incauto forestiero danaroso, è rincorso e sedotto dalla sorpresa di aver una così rara ed interessante mano. Lunga linea della vita e pieghe mai viste, presagi di salute, eredità incombenti, amori fantastici … soldi in arrivo! Cosa si può desiderare di più dalla vita!
E’ qui che termina la nostra escursione, tra i pittoreschi vicoli dai proliferati negozietti variopinti, inondanti di aromi di spezie, tra effluvi accattivanti di radici orientali. Moderni “thermopolium” che dispensano i più impensabili ristori. Il the preparato in 100 modi diversi. La birra servita con invitanti ??? schiume galleggianti, i dolci al sesamo al papavero. Ed ancora tanti gingilli di cui da tempo abbiamo disfatto le nostre case.
Poi la vista mozzafiato sui dirupi prospicienti il Treja lungo tutto il perimetro del borgo. Gente, tanta gente in giro, tutti a riempirsi gli occhi di immagini gradevoli di un passato presente. Ovunque persone comuni, altre inconsuete, tutte comunque comprese entro un ampio arco di soggetti, dalle minoranze etniche agli uomini in scalcinati e sgualciti doppiopetto. Ma niente guasta il luogo, anzi, compartecipa a rendere particolare e pittoresco l’ambiente. Tanta e tanta gente che alla fine troviamo difficoltà a ritrovare i nostri amici di macchina del Tiburzi, per far ritorno al nostro mondo ed alla nostra ordinaria città. Ma Calcata è e comunque rappresenta un medley delle nostre radici, con effetti, seppur in tutta una funzione scenica, una “FRITTOLE” ante litteram dell’indimenticabile Film “Non ci resta che piangere”, le cui scene pa esane furono girate, guarda caso, a Capranica ed al Castelletto di Rota.
Ivano Romiti
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