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Dicendo “diversamente abile” ci si può forse mettere a posto la coscienza?

Boh, oggi pensiamo di ammazzare la realtà con le parole, perciò non si può dire “disabile” ma “diversamente abile”. Adesso c’è la nuova follia del cosiddetto “abilismo”: occhio a dire di saper fare qualcosa perché potreste essere definiti “abilisti”.

Le parole non cambiano i fatti e i fatti sono che ci sono alcune persone che non riescono a fare delle cose e possono recuperare, a volte del tutto, a volte poco, a volte per nulla.

E allora? Allora, nella sostanza, cosa cambia rispetto a chi ha normali abilità? E “Disabile” o “diversamente abile”, cosa cambia? Dicendo “diversamente abile” ci si può forse mettere a posto la coscienza? Il cosiddetto linguaggio inclusivo, include poi davvero o è un pannicello caldo per noi altri e che non sposta di un millimetro la condizione di quelle persone?

Perché invece di cambiare le parole non ci accorgiamo che nella sostanza non cambia nulla? Ci vuol tanto a comprendere – a constatare – che quello che qualcuno sa o non sa fare non ne cambia il valore? La capacità è sostanza? E la capacità di fare cosa, poi?

Dovremmo liberarci dell’illusione – dell’inganno – delle parole e chiamare cose e persone col loro nome ma solo e soltanto per amore e non per superbia o compassione, per rispetto e non per formalismo.

Che poi, detto francamente, moltissime di quelle persone non sanno fare cose che noi facciamo ma sanno fare cose che noi nemmeno ci immaginiamo. Non serve neppure metterle alla prova, non devono saltare nel cerchio di fuoco: basta passarci del tempo insieme e se ne prende atto.

Massimo Micaletti

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