Clemente Rebora e la poesia come lingua dell’indicibile
1. Diceva Platone che il meglio della cultura di un uomo consiste nella buona conoscenza dei poeti, più esattamente «nell’essere in grado di intenderne le opere, di analizzarle e renderne conto a chi te ne domanda»[1]. Questo perché la poesia è la vera lingua dell’indicibile, quella che sola permette di attingere e rivelare le verità più profonde e nascoste. Ciò che vale più che mai per un autore come Clemente Rebora, tra i più originali, ricchi, intensi del secolo scorso. Anche tra i pochissimi davvero grandi.
2. «Ha portato Dante nel Novecento», ripeteva l’editore reboriano per eccellenza, Vanni Scheiwiller, a chi gli chiedeva quale fosse in estrema sintesi lo specifico apporto del ‘suo’ autore alla poesia contemporanea. Alludeva certo alle tante parole della Divina Commedia cui Rebora ha dato nuova vita nei suoi componimenti (nuova vita: perché quando prendeva a prestito una parola, un’immagine, non agiva mai in modo formalisticamente inerte, ma attraverso quella parola e quell’immagine si confrontava con il ‘sentire’ profondo dell’autore-fonte). Forse Scheiwiller alludeva però anche a un’analoga formula usata da Piero Bigongiari, che a proposito del nostro poeta aveva pure parlato di «medioevo novecentesco»[2].
Perché medioevo? Perché Dante? La risposta è semplice: perché mai per un momento Rebora ha dubitato che le sue parole non dovessero tendere a un significato, ambire a una verità, per quanto difficile o impossibile da raggiungere. Siamo ben al di qua del tutto novecentesco Montale cantore del dubbio, per cui solo è possibile dire «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Altra la linea del nostro poeta. Dice Tommaso Gallarati Scotti che le parole della grande Caterina da Siena «sono generate dalla cosa stessa che vuol dire e hanno la traccia di una fatica creatrice, come chi scava nel profondo del proprio sentimento, fino alla sorgente vergine»[3]. Ecco, lo stesso vale per il Medioevo più bello, da Dante a Jacopone, a Santa Caterina. E vale appunto per Rebora.
C’è una pagina dell’epistolario che definisce bene questo suo aspetto modernamente ‘medievale’. Scrivendo il 29 dicembre 1924 al fratello Piero, curatore degli Ammaestramenti morali di Fra Jacopone (uno dei «Libretti di vita» diretti da Clemente per la Paravia), il poeta lamenta la sostituzione in un passo del testo della parola viltate con miseria, spiegando: «Nel secolo di Dante viltà è proprio agli antipodi di bontà: la prima è l’inerzia spirituale che rende incapace di promuovere il bene – la seconda il coraggio morale che genera e verifica il bene verso l’ideale della Vita (Dio). Non si può usare altro termine»[4]. La passione per la verità implica infatti parole coraggiose e non accomodanti. Ciò significa che per Clemente Rebora non esiste mai una vera «autonomia del significante», essendo la poesia sempre espressione di un altro e di un oltre.
3. Ma perché la passione del vero si facesse poesia da rendere pubblica attraverso un progetto editoriale e soprattutto attraverso una forma adatta, era necessario che quel giovane di famiglia laica e risorgimentale, dalla forte eticità mazziniana, trovasse consapevolmente la sua strada. Crescere significa sempre un poco morire a se stessi, abbandonare definitivamente qualcosa di sè.
Il 22 ottobre 1909 Clemente è in solitario ritiro su un altro bel lago non troppo lontano da qui, a Loveno sopra Menaggio, dove sta preparando la tesi di laurea su Giandomenico Romagnosi. Vive una crisi nera. Difficoltà nell’elaborazione del lavoro, senza dubbio; ma anche la consapevolezza di non ritrovarsi del tutto nella cultura illuministica e positivistica del suo autore, che erano poi quelle del suo stesso ambiente familiare. Quel giorno scrive infatti al padre una memorabile lettera in cui prende congedo da quella cultura, privilegiando invece un «pensare in grande» che molti anni dopo riconoscerà in pienezza nel verbo rosminiano. Dice di essere insoddisfatto di una «ragione così divisa nella sua casella dal cuore» e che la vorrebbe piuttosto «interprete umilissima della natura»; per nuove auctoritates sceglie, con un eclettismo ancora acerbo ma non banale, «Buddha Cristo Dante Bruno… Vico Alfieri e Leopardi»: anime tutte che «tendono alla ricerca della verità»[5]. E anime che, si può aggiungere, ambiscono a un incontro di forte sentire e forte pensare, cui Rebora aggiunge un ethos che non dimentica il meglio della tradizione mazziniana, ma ne recupera la dimensione più ‘spirituale’.
Un secondo decisivo stimolo alla composizione e pubblicazione di testi poetici è offerto dall’altra ben più piacevole incombenza cui il giovane Clemente si dedica in questo stesso periodo: la tesina Per un Leopardi mal noto. Postillando appassionatamente i testi leopardiani, specialmente lo Zibaldone, finisce non solo per far luce su un aspetto di solito trascurato del pensiero del gran Recanatese (i rapporti con la musica), ma anche per conoscere meglio le proprie potenzialità poetiche, confrontandole con quelle di un autore cui lo avvicina la comune percezione della dolorosa frattura tra l’eterno e il transitorio e anche il comune sforzo per esprimerla. Succede come nel vero amore e nella vera amicizia: ci si riconosce nello sguardo della persona che si ama.
Quando per esempio ci parla di parole come «irrevocabile, notturno, profondo, posterità, eterno, morte», da Leopardi giudicate particolarmente poetiche,Rebora finisce da un lato per acquisire termini che metterà a frutto nelle sue liriche, dall’altro per condividere con il suo autore un approfondimento teorico che non potrà non essere fecondo anche per lui stesso. Di più, nel mettere in rilievo la «duplicità […] di un Leopardi teorico e di uno pratico», Rebora ricorda da un lato la critica leopardiana alla spiritualizzazione, dall’altro l’importanza che la medesima spiritualizzazione assume nel «colorire i pensieri e sentimenti nostri delle sue proprie caratteristiche specifiche»[6]. Parole che per esempio spiegano quegli ‘idilli’ reboriani in cui la natura pare farsi viva e antropomorfica dinanzi al miracolo di un’armonia spazio-temporale capace di sospendere il ritmo irrevocabile della storia. Per esempio: «Pulsa l’eterno anelito e s’invera / Il creato, protesa in su la bocca»[7], dove come si vede il fenomeno assume veramente quel carattere «sensuoso» attribuito ieri alla poesia reboriana dal Professor Ottonello nel suo intervento.
In un passo dello Zibaldone vicino a quello appena citato, Leopardi riconosce la «forza dello stile poetico» nella capacità di suscitare «idee simultanee» grazie alla rapidità e concisione della scrittura. Ne deriva la contrapposizione del «debole stile di Ovidio», le cui parole «non destano l’immagine senza lungo circuito […] giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli oggetti appoco appoco per le loro parti», a quello di Orazio, invece «rapidissimo, e pieno d’immagini per ciascuna parola, o costruzione, o inversione, o traslazione di significato» e soprattutto – eccolo di nuovo – a quello di Dante, che è «il più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più bello e dilettevole possibile», in quanto «ogni parola presso lui è un’immagine»[8]. Ogni parola un’immagine,e sovente attraverso una traslazione del significato: sembra una perfetta rappresentazione dello stesso linguaggio reboriano, in cui appunto le parole vengono sistematicamente traslate dal loro comune impiego, acquisendo nella figura del tropo il loro caratteristico aspetto scolpito, tridimensionale e persino animato, che fa vedere e quasi ‘toccare’ gli oggetti poetici. Alcuni esempi: nei Frammenti lirici lo spazio è «poroso e assetato» oppure «zonzando scintilla»; l’idea «s’annida agli svolti» e sbottando fa paura; i muri «abbassano pàlpebre»; la città «tituba curva»; la terra «come insetto scovato si torce»; e così via[9]. Ecco uno dei caratteri veramente tipici della poesia reboriana. Ed ecco anche la radice di quel «realismo che si fa stile» che pure è così caratteristico del poeta per quel suo accostare oggetti e realtà umili ad ambiti altri e alti, astratti e ideali: i giorni sciorinati come cenci, la locomotiva che annusa, la vita scardassata, l’aria e lo spirito che rigurgitano, sino al vento a cucchiai di un testo successivo e ai «pezzettini di preghiera» del Curriculum[10] (come in Gozzano – secondo l’indovinata definizione montaliana – sembrano cozzare «aulico e prosaico», così in Rebora cozzano piuttosto spirituale e prosaico).
La spinta di questo realismo è dunque dantesca e, come abbiamo visto, la spinta di questo dantismo è in un certo senso leopardiana (stiamo parlando dei due massimi autori
poetici rivendicati dal giovane Clemente nella lettera al padre). Ma prima di tutto ciò che genera lo stile del poeta è, come diceva Gallarati Scotti di Santa Caterina, «la cosa stessa che vuol dire»: non c’è autonomia del significante, lo ripetiamo.
4. Nascono così i Frammenti lirici[11], la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo delle idee, delle parole, dei suoni, e tutto fondere a tentare una verità percepibile ma non sempre rivelabile. Esiste però anche una ragione più personale che sollecita Rebora, come in fondo qualsiasi poeta, ed è il bisogno di raccontare la sua storia rispetto all’«egual vita diversa» che «urge intorno», una vita in cui avverte l’impossibilità di «esser qualcosa d’adatto»[12]. C’è in lui una sorta di ontologica nostalgia per un’innocenza perduta che sente tradita da una società – quella della prima vera industrializzazione dell’Alta Italia – in cui l’Utile di opportunisti e ipocriti (gli «scellerati buoni», l’«ilare gente codarda» che si nasconde in ciascuno) trionfa sull’Inutile dell’aspirazione (pure comune a tutti) alle cose alte[13].
Proprio come Leopardi, Rebora avverte però in modo pungente anche la dimensione storica di questa lacerazione, come se il vortice della modernità risucchiasse, prosciugandolo, il cuore eterno delle coscienze. Vede per esempio che nel mondo moderno si è ormai distrutta l’antica armonia tra uomo e natura tipica della civiltà contadina. Per questo così spesso al cittadino male di vivere che costringe e soffoca nei suoi «duri margini» (gli stessi della dantesca città di Dite!), contrappone la dimensione ancora intatta della campagna e spesso della montagna, luoghi armonici di «infinita adesïone»[14]. C’è poi un elemento più alto e metafisico: nei Frammenti lirici il contrasto è anche tra un cielo distante e non riconoscibile (la «lontananza velata»di Fr LI, il «cielo balzàno» di Fr XI) e la terra oppressa nella sua dolorosa fatica di cui non è possibile conoscere il senso ultimo, e che perciò «Paga col sangue, sola, la sua fede».
Sono i due poli della poesia reboriana, che vivono però nel poeta anche di una dimensione privata. E’ il giovane Clemente, non un astratto ideologo, ad avvertire sulla sua pelle il bruciante conflitto con una realtà in cui si sente «fuori concorso»; ed è ancora lui che in Fr XII non riesce a comunicare il suo affetto alla madre quasi avvertendo uno iato esistenziale profondo e non componibile («Oh bavaglio nemico / All’ingenua effusïone / D’ogni pàlpito vero»). Ma dall’altra parte è di nuovo il giovane Clemente a godere della consolazione della famiglia e degli amici (come nel frammento II) e a vivere grandiose giornate di adesione alla realtà sulle amate montagne. Come testimoniano questi versi di un frammento leggermente più tardo[15]:
Accettazïon contemplante,
Come sull’Alpi più nostre
Le forme e le voci che ami:
Risparmïati pianti
Delle pecore in branchi,
Amorfo terror delle vacche
Indietro sguardanti,
Allarme delle marrmotte
Che nel vento a cucchiai
Su laghi e nevai
In un colpo di fischio s’imbùcano
Per le morèniche grotte;
Profili di cime
Al rasoio dell’aria,
Imbizzarrite zebre di versanti,
Spàsimo degli ultimi pini
Vivi sull’unghie agli abissi;
Lento travaso di denso vapore
Per l’aereo stupor delle bocchette,
Luce stregata sui prati snevati,
Liquefatti rivèrberi alla sera
(O conca di Fraele
Gràcile fièvole nome
Di forte sostanza!),
Terso brulichìo di rododendri,
In onda di conchiglia acque correnti,
Inseguimenti di gioia per valli,
Sete baciata alle fonti, tremori
Nei tùrbini cupi,
Indimostrabile vita
Di rupi e di fiori!
I due poli convivono: come il romanzo della vita, anche il libro dei Frammenti sembra rimanere senza idillio; eppure dalla loro vasta trama affiora non di rado la presenza di una felicità nativa e profonda delle cose, insieme all’invito – che Rebora fa a se stesso – ad attuare l’unica ‘felicità’ realizzabile hic et nunc nella città dell’uomo: quella di «giovare scomparendo», di prodigare comunque a beneficio degli altri la «gagliarda bontà» di Fr I, anche questa molto autobiografica (era proverbiale l’altruismo di Clemente, e con questo spirito per alcuni anni insegnò nelle scuole tecniche e serali). Una bontà certo ‘irragionevole’, che non spiega il perchè del bene e non riesce a trasformarsi in carità e neppure in un coerente progetto ideologico, tanto che forse proprio in questa contraddizione è una delle possibili chiavi di interpretazione della futura conversione del poeta. Ma una bontà che intanto basta a conferire quel fascinoso nerbo spirituale al giovane Rebora e a quella sua poesia già così intensa di chiaroscuri.
Non è possibile riannodare qui tutti i fili che percorrono la ricchissima trama dei Frammenti lirici, che anticipano e in qualche modo contengono anche diversi spunti della successiva produzione poetica. Basti ricordare il sistematico antidannunzianesimo, che spesso utilizza le stesse parole del poeta vate per rovesciarne parodicamente il senso (le passioni del mondo del protagonista del Piacere, l’esteta ingordo Andrea Sperelli diventano nel frammento proemiale una «Passïone del mondo» intesa come capacità di patire, amare, giovare). I Frammenti sono poi anche una sorta di trascrizione di quello “storicismo intuizionistico” di matrice idealistica e bergsoniana che Contini ha per primo riconosciuto come una delle chiavi di lettura della raccolta: sin dall’esordio e per tutto il libro si parla infatti di pensiero e di atto, di idea e di tempo, mentre termini come urto e contrasto definiscono normalmente la modalità di questa dialettica.
Conta di più notare che l’insieme di questi contrasti genera una profonda e spesso drammatica animazione (spiritualizzazione, avrebbe detto Leopardi)delle parole. Di qui lo stile di Rebora, un vero unicum nel panorama della poesia italiana contemporanea; che altri (dallo stesso Contini a Bandini, a Mengaldo) hanno spiegato molto bene, come teso alla rappresentazione più che alla semplice descrizione degli oggetti poetici. Da questo punto di vista la lirica tradizionale è inesorabilmente aggiornata, anche nel senso di quella rapidità indicata nello Zibaldone:
Dall’intensa nuvolaglia
Giù – brunita la corazza,
Con guizzi di lucido giallo,
Con suono che scoppia e si scaglia –
Piomba il turbine e scorrazza
Sul vento proteso a cavallo
Campi e ville, e dà battaglia;
Ma quand’urta una città
Si scàrdina in ogni maglia,
S’inombra come un’occhiaia,
E guizzi e suono e vento
Tramuta in ansietà
D’affollate faccende in tormento:
E senza combattere ammazza.
Qui parole e suoni del testo inaugurale dei Primi poemetti pascoliani («Corsero come guizzi di pupilla; / tutto via via razzava: un fil di paglia / nel concio nero, un ciottolo, una stilla. / Ma il sole entrava come in una maglia / sottil di nubi d’un color d’opale, / e traspariva dalla nuvolaglia») sono sottoposti a una vera e propria reazione chimica che li stravolge e rivitalizza. Si misura qui il passaggio dall’impressionismo di Pascoli a quello che è detto l’espressionismo di Rebora. Ma, come già mi è capitato di dire al recente convegno della Sacra[16], occorre precisare che quest’ultimo termine andrebbe usato con una certa cautela; bisognerebbe semmai recuperarne il significato originario di una vitale dissoluzione della lingua come specchio di una parallela «dissipazione del mondo», secondo la formulazione di Gottfried Benn. C’è espressionismo se c’è un ethos ribellante. Da questo punto di vista, il linguaggio ‘dissipato’ di tanti Frammenti che rappresentano la rovina di un mondo può certamente definirsi espressionistico («le case dall’occhiaia strana» di Fr XII; il «ghigno del cielo» sulla primavera malata della città di Fr XXI; la stessa già ricordata idea che «s’annida agli svolti» di Fr VIII: immagini veramente degne di un Egon Schiele o di un Munch).
Non tutto Rebora è però così. Il suo stilismo è mosso, increspato anche quando è armonico, unitivo. E diventa allora voce di quella parola eterna in cui tutto ama ed è amato:
Da fonti aperte nasce il sentimento
Che d’ogni cosa fa ruscello, e intorno
D’amorosa bontà freme anche il lento
Fastidio ch’erra nell’usato giorno
Come si vede, parole dinamiche, tropi (il sentimento che fa ruscello di ogni cosa), ma non espressionistica dissipazione.
5. Eppure, quando nella seconda metà del giugno 1913 escono i Frammenti lirici, pochi si accorgono che un evento nuovo è accaduto nella poesia italiana. Le prime recensioni sono spesso fuorvianti, a partire da quella famosa di Emilio Cecchi che, distratto forse dalla terminologia in qualche caso filosofica persino in senso tecnico («copie del mondo», «idea», «divenir», «spirito») definisce Rebora un «fiacco poeta idealista». E’ l’inizio di un equivoco che a lungo è pesato sulla poesia reboriana. Se infatti se ne considera piattamente il ‘contenuto’, non c’è dubbio che vi si possano riconoscere elementi di troppo esplicita ‘oratoria’ proprio nel senso di una trascrizione lirica dell’idealismo. Così come se si guarda alla sola ‘forma’ è altrettanto indubbio che altrove, non in Rebora, vada cercato un autosufficiente «scrivere bene».
Si capisce, allora, che la rivalutazione reboriana cominci con la critica ermetica, nel senso lato del termine (da Contini a Betocchi, allo stesso Carlo Bo), più attenta alle implicazioni ‘morali’ del fatto espressivo e prosegua poi non troppo paradossalmente nel secondo dopoguerra con quella impegnata e antiermetica di Pasolini, Caproni, lo stesso Fortini. Proprio come Dante, direbbe forse Scheiwiller, Rebora cambia sempre il lettore, qualunque sia il suo orientamento, senza che possa succedere l’inverso. Per questo è un autore non strumentalizzabile in alcuna maniera: non può adeguarsi al mondo perché, in un certo senso, non è di questo mondo.
Ma intanto, dopo i Frammenti, il nostro poeta vive una fase intensa e decisiva della sua vita, raccontata da Padre Muratore nella bella biografia pubblicata dalle Paoline nel ’97. Sappiamo che ci sarà l’amore «tragico» (come lo definisce lo stesso poeta) ma generosissimo per la pianista russa Lidia Natus. E anche qui Clemente pare diviso tra il cielo della spiritualità e la terra dell’amore fisico, tra agape ed eros. I due piani sembrano però incontrarsi, come rivela il Curriculum vitae e come ha ben spiegato Renata Lollo, nell’icona materna che Lidia si era portata dalla Russia: la Vergine intuita come suprema mediatrice, l’immagine non come forma separata ma come suscitatrice di senso.
Sono però anche gli anni terribili della Grande Guerra. Sappiamo dal biografo che Rebora va al fronte, in prima linea, che è travolto dalle schegge di un proiettile di artiglieria, che viene ricoverato per trauma psichico all’ospedale di Reggio Emilia, dove gli è diagnosticata con parola greca una «mania dell’eterno» che neanche il più geniale promoter avrebbe potuto inventare per il ‘lancio’ di uno scrittore (diventerà infatti titolo di più di un libro dedicato a Rebora).
Anni che ci lasciano anche testi straordinari, capaci di testimoniare la guerra con una sincerità tanto bruciante che al suo confronto «anche il fante Ungaretti – dirà Gianni Pozzi rischia di apparirci un letterato compiaciuto»[17]. Un esempio:
Perdono?
Stralunò il giorno.
Fungaia d’un morto saponava la terra, a divano. Forse tre settimane. Schizzava il corpo, in soffietto, dai brandelli vestiti; ma ingrommata la testa, dal riccio dei peli spaccava alla bocca, donde lustravano denti scalfiti in castagna rigonfia di lingua. E palude d’occhi verminava bianchiccia, per ghirigori lunari.
Feci come per tergerlo al cuore – ma viscido anche il mio cuore. Perdono?
Diedi come a fasciarlo di sguardi – ma senza benda i miei sguardi. Perdono?
Mamma – era un cosino che faceva pipì, una stella, da bimbo. Perdono?
Era per sé irreproducibilmente creato; viveva: e forse gliela volevi tu, sorte, una donna. Perdono?
Indicibile uno, strappato al segreto suo vivo, per sempre finito; se per la gente a venire, in grandezza caduto – l’immemore tempo è nessuno, e non cade. Perdono?
«Staccatelo, e seppellitelo qui. Via svelti!»
Dove è già stato dimostrato in altri studi che Rebora contamina Dante e Jacopone, ma riaccendendoli al cospetto di un linguaggio sistematicamente fondato sul tropo, sulla traslazione di significato di cui diceva Leopardi (il cadavere decomposto che diventa una fungaia che insapona la terra; la testa ingrommata come le ripe dell’Inferno dantesco; la verminante palude d’occhi, i denti scalfiti, e tutto il resto che richiamano puntualmente uno dei testi terribili di Jacopone, Quando t’alegri, omo d’altura).
Come si vede, succede qui proprio quello che Gallarati Scotti diceva di Caterina da Siena: le parole sono «generate dalla cosa stessa» cui si riferiscono. Tanto che, proprio nell’orrore della guerra la frattura tra cielo e terra paradossalmente si compone in un’altra terribile immagine, quella del «cielo addosso» della lirica Vanno: un cielo che dunque diventa terra pregna di dolore e inespiabile peccato.
6. Finita la guerra, e finito anche l’amore, Rebora si dedica a un vario apostolato laico, ispirato però sempre a una ricerca spirituale, in senso lato ‘religiosa’. Si interessa di messianismo slavo, di yoga, dirige i già ricordati Libretti di vita, collana che ha l’obiettivo di «educare e affratellare il popolo»; fa conferenze, specialmente rivolte a un pubblico femminile (conoscerà anche la pedagogista Adelaide Coari, che sarà molto importante per la sua maturazione religiosa).
Sul versante poetico, esce nel ’22, presso il Convegno, la seconda raccolta: i nove Canti anonimi raccolti da Clemente Rebora, un titolo in linea con con l’attitudine all’auto-annullamento che è tipica del poeta e che culminerà, dopo la conversione, nel famoso voto di poter morire «polverizzato nell’amor di Cristo».
Nei Canti anonimi la dicotomia tra reale e ideale, terra e cielo, uno e tutto, si fa ormai chiara e pacifica: sembra sia possibile risolverla solo con un salto di qualità, di natura evidentemente a-razionale (non irrazionale). Anche lo stile sembra pacificarsi in immagini più nette e talora persino disadorne, ma non meno potenti rispetto ai testi dell’esordio.
Fa parte di questa raccolta Dall’imagine tesa, la poesia più famosa di Rebora, quella in cui egli esprime forse lo spasimo silenzioso dell’attesa dell’amata. Ma per la posizione di congedo, in chiusura di libro, la lirica è stata anche giustamente considerata come una sorta di promessa di conversione: «Verrà, se resisto / a sbocciare non visto / … / Verrà quasi perdono / Di quanto fa morire, / Verrà a farmi certo / Del suo e mio tesoro, / Verrà come
ristoro / Delle mie e sue pene, / Verrà, forse già viene / Il suo bisbiglio». Versi che qui conosciamo tutti a memoria.
Ma forse non meno significative due altre liriche della raccolta. Prima di tutto la canzonetta Campana di Lombardia:
Campana di Lombardia,
Voce tua, voce mia,
Voce voce che va via
E non dài malinconia
Io non so che cosa sia,
se tacendo o risonando
vien fiducia verso l’alto
di guarir l’intimo pianto,
se nel petto è melodia
che domanda e che risponde,
se in pannocchie di armonia
risplendendo si trasfonde
cuore a cuore, voce a voce –
Voce, voce che vai via
e non dài malinconia.
La campana non dà malinconia perché «perché è voce di qualcosa che è qui da sempre»[18], dice Luca Doninelli; per questo è capace di guarire l’intimo pianto del nostro male di vivere. In un certo senso, riesce a rendere fisicamente percepibile l’elemento spirituale, quasi rapprendendolo in suono. Ma consideriamo anche la vivace increspatura espressiva che in quelle «pannocchie di armonia» dà vita a una nuovissima, serena associazione di astratto e concreto. Ecco lo stilismo che unisce, anziché violentemente ‘dissipare’ la realtà delle cose!
Un breve volo pindarico. Il generale Pietro Grigorenko, imprigionato come dissidente negli anni duri del comunismo sovietico, sin dalla prima sera in carcere sentì risuonare in lontananza una campana. Secondo la sua stessa tesimonianza, pubblicata recentemente da Avvenire, fu quello l’inizio di una revisione che lo portò a riscoprire i tesori della sua fede d’infanzia: «Decisi che, se mai fossi tornato in libertà per prima cosa sarei entrato senz’altro in quella chiesa»[19]. Ciò che puntualmente avvenne.
Qualcosa di analogo avviene anche in un altro grande testo dei Canti anonimi, Al tempo che la vita era inesplosa.
La vita inesplosa è quella in cui è ancora possibile il prodigio di un’armonia con le cose, di una perfetta persuasione in esse (nel senso forte che a questo termine diede Carlo Michelstaedter[20]). E’ la vita non ancora compromessa con le contraddizioni dolorose della storia e della realtà sociale. Proprio quando essa – come la diritta via dantesca – più va smarrita, il poeta la ritrova nei valori dell’infanzia, radicati nella campagna (quella di Calolzio, vicino a Lecco) e nella fede semplice del Carlo contadino.
Al tempo che la vita era inesplosa
E l’amor mi pareva umana cosa,
Fanciullo a te venivo
O Carlo contadino,
Dove in corona dall’alba alla sera
Nel vasto sole delle estati brevi
Esaudendo come una preghiera
La terra non tua più l’avevi.
*
A te correvo già felice:
E tu guidavi senza farmi male
L’anima persuasa,
Parlando il poco di chi intende e dice.
Questa riconquistata energia religiosa diventa vera luce per le tèrree nostre notti: la crisi di Rebora sembra dunque anticipare qui il suo promettente sbocco. Nel finale di questa bellissima poesia, Rebora infatti prima ci parla della ‘resurrezione’ della polenta (ecco il “realismo che si fa stile”) nella circolarità della natura benefica:
E in aureola splendeva
L’astro della mensa,
Il sol della polenta
Per chi ha in sé grande spazio,
Luce che si contenta
Di tramontare in noi:
E quando il cuore è sazio,
Se ne risparmi poca, anche meschina,
Essa risorge in tuorlo di gallina.
Quindi, ribattendo lo stesso verbo chiave (appunto risorge), accosta la resurrezione della polenta al salvifico recupero dei valori incarnati dal Carlo contadino della sua infanzia:
Risorge la tua cara vita
Dove più va smarrita
O Carlo, contadino
Di un solco che è sentiero
Per le tèrree nostre notti.
E ti vedo levar come il mattino
In verecondia gli occhi
Consacrando il pensiero
Al semplice elemento,
Mentre è bello il silenzio a te vicino.
Il solco (parola chiave) diventa sentiero che fa ritrovare la via, non più smarrita. Leggo in un appunto del Diario intimo di Rebora, raccolto da Roberto Cicala e Valerio Rossi: «Mamma mi ha detto più volte che la mia indole e tendenza mistica mi veniva certo dal latte della mia balia che era una piissima contadina della nostra Lombardia»[21]. La balia che salva, la campagna che salva, la polenta che salva!
E’ tale l’intensità concettuale e, in senso lato, religiosa di questi ultimi testi che ci siamo dimenticati di notare che si tratta di veri capolavori in termini anche squisitamente letterari: Gianfranco Contini, per esempio, considerava proprio l’Inesplosa la più riuscita particolarizzazione dei ‘miti’ poetici reboriani[22].
7. Dobbiamo però procedere rapidamente verso la fine di questo nostro itinerario. Nel ’26 Rebora pubblica dei Versi forse non bellissimi ma profondi e profetici. Capisce che la modernità sta violando il cuore profondo della dignità umana, che l’antiCristo sta avanzando con i suoi falsi riti e che «l’inaudito è commesso, / Il fatto annulla la parola»[23] (c’è tutto l’oggi in questi due versi); anche capisce che la donna avrebbe il compito (la missione, forse la vocazione) di custodire l’arca di questo cuore e diventare salvifica madonna dei popoli.
Siamo ancora in una prospettiva teologicamente non definita. Ma questi sono gli ultimi versi pubblicati dal nostro poeta prima della conversione.
Il resto è noto. Nel 1928 al Lyceum di Milano Rebora propone una serie di incontri sulla storia delle religioni. Arriva il turno del cattolicesimo; Rèbora inizia a parlare degli Atti dei Martiri Scillitani. Scrive Margherita Marchione: «Cominciò a leggere gli appunti. Parlavano di sette uomini e cinque donne davanti al proconsole Saturnino […]
Saturnino disse: ‘Non siate pazzi’. Cittino rispose: ‘Non temiamo altri che il Signore Iddio che è nei Cieli…’. Vestia disse: ‘Sono cristiana’.
Rèbora […] non fu capace di proseguire»[24]. Di certo la paolina follia della Croce gli sarà apparsa in quel momento tanto più vera e persuasiva della razionalità massonica in cui era cresciuto, eticamente elevata ma incapace di elaborare un’Incarnazione e una dimensione trinitaria in grado di dare un senso ultimo alla bontà da lui sempre generosamente prodigata; e che avvicinassero quel cielo lontano alla sofferenza della terra, per compromettersi con essa e redimerla.
Il 24 novembre 1929 Clemente riceve la prima Comunione dalle mani del Cardinal Schuster, che più tardi gli amministrerà anche la Cresima.
Il successivo Approdo rosminiano di Clemente Rebora è ben testimoniato da Padre Carmelo Giovannini, oltre che dallo stesso Padre Muratore e da Renata Lollo[25]. Sono lunghi anni di silenzio poetico in cui Rebora si concentra totalmente nella sua vocazione. Tutto sommato, rimane però sempre un poco «fuori concorso», faticando a essere «qualcosa d’adatto». Proprio come il giovane Clemente. Il suo ritratto rimane quello incerto e memorabile fissato una volta per tutte da Carlo Betocchi in un articolo del ’37: «Rebora aveva «quella particolare rozzezza e timidità che è propria degli spirituali; uomini dall’inconfondibile accento, dal passo impreciso che non si dimentica»[26].
Pure, come scriverà nel Curriculum, trova qui la sua pienezza di vita: «Dalla perfetta Regola ordinato, / l’ossa slogate trovaron lor posto», mentre i diversi piani una volta distanti sono finalmente fusi nel mistero cristiano: «Gesù amore per me fu gravidanza»[27].
Solo per obbedienza accetta di scrivere qualche lirica religiosa, e di ripubblicare per Vallecchi (1947) una silloge di tutte le sue Poesie,amorevolmente curate dal fratello Piero. A poco a poco, in una progressiva riconquista di fiducia nella parola poetica, Rebora ritrova una nuova ispirazione, uguale e insieme diversa rispetto all’antica. Il meglio lo spreme negli anni dell’infermità, gli ultimi prima della morte di cui si ricorda quest’anno il cinquantesimo.
Sono i versi del Curriculum, che lungo diverse sequenze, quasi flash cinematografici, scandiscono il racconto della vita del poeta ormai sub specie aeternitatis;ed è suggestivo questo non più doloroso incontrarsi di tempo ed eterno, nel momento in cui Rebora ricorda la volontaria distruzione di tutte le sue carte, poco dopo la conversione:
Il cittadino accender della sera
mi trovò solo a ripensare il tempo:
l’anima mia, posta nell’eterno,
mestizia forse, non tristezza colse.
E sono anche i versi dei Canti dell’infermità, l’estremo grande sussulto di un poeta che è ormai giunto a riconoscere diritto di cittadinanza poetica soltanto all’unum necessarium e dunque anche alle parole strettamente necessarie
Terribile ritornare a questo mondo
quando già tutte le fibre
erano tese
a transitare!
E il corpo mi rifiuta ogni servizio,
e l’anima non trova più suo inizio.
Ogni voler divino è sforzo nero.
Tutto va senza pensiero:
l’abisso invoca l’abisso.
Di qui la novità di quest’ultimo Rebora che, nel solco di quel processo di semplificazione che già si era visto nei Canti anonimi, giunge ora alla «tensione tutta verticale» di cui diceva un gran reboriano come Giovanni Raboni, disponendosi «nel senso naturale che il pensiero assume quando diventa preghiera»; ecco che allora, cito sempre da Raboni, «la violenza che si esprimeva in grandi strutture metriche e sintattiche, in grandi sistemi metaforici, in grandi architetture di suoni, può essere sostenuta, ora, e come ‘rappresentata’, da una sola parola, un solo aggettivo, da un solo scatto o scarto grammaticale, da una sola torsione metrica. Nel silenzio che, pronunciato li circonda, essi colpiscono la fronte del lettore come una sassata, come un meteorite scagliato dallo spazio»[28].
Proprio dal letto della malattia Rebora sprigionava più che mai gemme di sapienza e verità, fedelmente raccolte nel diario del suo infermiere, l’attuale Padre Ezio Viola. Chiudiamo con una di queste, che ci pare particolarmente intonata: «Quanta profonda sapienza cristiana nell’Ave Maria… Nel nunc si risolve tutta la nostra vita religiosa; se fossimo perfetti nel nunc avremmo risolto tutti i nostri problemi. Solo il nunc è in mano nostra, e quindi anche l’hora mortis, che diventerà così l’ultimo nostro nunc»; e ancora: «Recriminare sul passato, evadere dal presente, preoccuparsi del futuro, ecco l’arma con cui il demonio fa magg iormente scempio di un’anima. Il nunc dell’Ave Maria distrugge tutta la baracca del diavolo»[29].
Come si vede, in questo nunc il fatto non annulla più la parola, come paventato in quel lontano testo del ’26, ma ne diventa amico e fratello. Perchè nel nunc è il perfetto amore, la perfetta persuasione di fatto e parola.
Stresa, 23 agosto 2007
Gianni
Mussini
[1] Platone, Protagora, XXVI 1. Nella presente esposizione, da ora in poi Fr = frammento.
[2] Piero Bigongiari, L’oggetto come evento in C.R., in Poesia italiana del Novecento, Milano, Il Saggiatore, 1978, p. 216.
[3] Le più belle pagine di Caterina da Siena, scelte da Tommaso Gallarati Scotti, Milano, Treves, 1923, p. III.
[4] C.R., Lettere I (1893-1930), a c. di Margherita Marchione, pref. di Carlo Bo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1976, p. 476.
[5] Lettere I, cit., p. 53.
[6] C.R., Per un Leopardi mal noto, a c. di Laura Barile, Milano, Libri Scheiwiller, 1992, pp. 153-154; e cfr. Zibaldone .
[7] Fr XXVI 13-14.
[8] Zibaldone,2042-2043.
[9] Cfr. Fr LXII 1, XXVIII 8, VIII 20-21, XXXVI 10, LXVIII 25, LXVIII 12,
[10] Cfr. Fr VI 1-2, XI 7, XXI 29, LXVII 14-15; oltre al frammento sparso Clemente, non fare così! , v.77 e a Curriculum vitae, v. 244.
[11] Pubblicati dalla Libreria della Voce nel giugno del 1913.
[12] Cfr. Fr I 1 e XLVII 63.
[13] Cfr. Fr LXVIII 41 e 45; XXI 47 e 61.
[14] Cfr. Fr LXVIII 24-25 («Ogni città tituba curva / Nei duri margini chiusa») e II 12-13 («Il cuor beatamente è un rapimento / D’infinita adesïone»).
[15] Sono i vv. 69-99 del già cit. testo sparso Clemente, non fare così!, uscito in rivista nel 1914.
[16] Cfr. diffusamente le pp. 102-107 di C.R. tra laicità e religione, Atti del Convegno tenutosi alla Sacra di San Michele il 29-30 settembre 2006, «Microprovincia», 45, gennaio-dicembre 2007.
[17] Gianni Pozzi, La poesia italiana del Novecento. Da Gozzano agli Ermetici, Torino, Einaudi, 19703, p. 83.
[18] Luca Doninelli, Quel giogo per R., «Il Sabato», 22 agosto 1987.
[19] Pigi Colognesi, Grigorenko, il generale dissidente, «Avvenire», 26 luglio 2007.
[20] Per Michelstadter, scrive Claudio Magris, la persuasione è «il possesso presente della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere a fondo l’istante senza l’assillo smanioso di bruciarlo presto», tanto che «chi non è persuaso consuma la propria persona nell’attesa di un risultato che ha sempre da venire, che non è mai» (Danubio, Garzanti, Milano 1985, p. 65).
[21] C.R., Diario intimo, a c. di Roberto Cicala e Valerio Rossi, Novara, Interlinea, 2006, p. 40.
[22] Gianfranco Contini, C.R.., in Id., Esercizi di lettura, Torino, Einaudi, 19742, p. 8.
[23] Versi, vv. 11-12.
[24] Margherita Marchione, L’imagine tesa. La vita e l’opera di C. R.,pref. di Giuseppe Prezzolini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 19742, pp. 77-78.
[25] Oltre alla cit. biografia curata da Umberto Muratore, cfr. Carmelo Giovannini, L’ approdo rosminiano di C.R., Rovereto, Biblioteca rosminiana, 2005; e Renata Lollo, La scelta tremenda (santità e poesia nell’itinerario spirituale di C.R.), Milano, IPL 1967.
[26] Carlo Betocchi, Su C.R., «Il Frontespizio», IX, 4, aprile 1937, p. 306.
[27] Curriculum vitae, v.301.
[28] Giovanni Raboni (La modernità di R., in “Psychopathologia”, Brescia, Edizioni del Moretto, 1985, p. 35.
[29] Cfr. Ezio Viola, Mania dell’eterno. Gli ultimi due anni della vita di Clemente Rebora nel diario del suo infermiere, a c. di Enzo Fabiani, Vicenza, La Locusta 1980, pp. 27-28 e 19 (corsivi nel testo).