Roma-Barcellona: si può anche piangere di gioia per una partita di calcio
Al terzo goal della Roma (quello di Manolas, risultato poi determinante per il passaggio del turno) mio figlio Massimo (11 anni) si è messo a piangere sbattendo i pugni sulla sedia. Un pianto lungo, quasi isterico, molto liberatorio che si è interrotto a fatica, grazie a un mio forte abbraccio, quando siamo tornati tutti sul divano per seguire, con sofferenza, gli ultimi minuti di quella che resterà nella storia come la Romantada (remuntada).
Ho scritto subito un tweet: “Belle emozioni, coi figli che piangono dalla gioia. È vita anche questa, come capitava a me col mio Milan”.
Il mio cinguettìo è stato molto ripreso e commentato e questo mi ha confermato che, comunque, il calcio rimane lo sport nazionale per eccellenza, specchio dell’Italia ma soprattutto di noi gente comune.
Detto questo non voglio dire che ieri sera si è fatta la Storia, che i problemi dell’Italia sono finiti (neanche quelli di Roma, le buche tanto per dirne uno), che abbiamo un Governo stabile, che il mio mutuo l’ho finito di pagare e che tutti stiamo bene e siamo felici (non rompetemi con sta retorica come dopo il concerto di Vasco Rossi).
Voglio solo dire che anche io da bambino (e un po’ più grandicello) ho pianto di gioia qualche volta per il mio Milan ma vivere a Roma, e tifare la Roma (o comunque la Lazio, o il Napoli se si è di Napoli) è “caratterizzante” e se queste serate (per ora molto rare) le considerano come una vittoria dello scudetto, va bene così: qui “siamo” diversamente passionali e queste emozioni “fanno solo bene” a tutto e a tutti.
Stamattina io sono andato al lavoro, Massimo a scuola e tutto è ripreso “quasi” normale ma quelle lacrime lì (come nell’addio di Totti) mi sono piaciute tanto perché sono ricche di amore per una squadra e per la propria città.