Sarà Valentino ad aprirci la porta del Paradiso
«Sarà Valentino ad aprirci la porta del Paradiso, uno degli ultimi che diventa primo, come dice il Vangelo. Sarà lui uno dei giudici che misurerà con quanto amore siamo stati capaci di amare».
Mi piace iniziare così, riprendendo le parole di chi mi ha preceduto nel lasciare un ricordo del nostro caro amico Valentin. Sì, proprio così: amico. Sembrava strano anche a me, uno o due anni fa, parlare di amicizia (vera) con un povero. Sebbene frequenti la Comunità di Sant’Egidio dall’inizio del 2014, il mio impegno verso i poveri, i primi tempi, era rivolto esclusivamente alla distribuzione del cibo per la strada, ma senza che mi lasciassi veramente coinvolgere dalla relazione con essi: sembrava, quasi, il semplice adempimento di un dovere. Quando sentivo pronunciare la parola “amicizia”, collegata alla relazione con uno dei poveri che aiutiamo, non riuscivo a capirne fino in fondo il senso, la portata. Poi, un po’ per caso (o forse no: non credo al caso, credo alla Provvidenza), incontrai Valentin. Ora, onestamente, non ricordo i dettagli dell’incontro con lui. Sono quasi sicuro che sia avvenuto nella mia parrocchia di San Lino, sulla Pineta Sacchetti, dove Valentin veniva quasi sempre, quando riusciva, ad ascoltare la messa della sera. Sarà stato circa verso l’inizio del 2016, se non addirittura il 2015. Vedevo quest’uomo povero, che a mala pena stava in piedi grazie alla sua unica stampella, malandato a dispetto di un’età ancora giovane, spesso sporco e un po’ brillo. Forse, vinte le iniziali diffidenze, le paure o semplicemente la maledetta fretta che spesso non ci permette di fermarci a dialogare con qualcuno, mi avvicinai per conoscerlo. Davvero non ricordo le dinamiche. Probabilmente iniziammo a scambiarci prima il saluto, poi qualche parola in più. Non parlava benissimo italiano ed era lento a esprimersi, forse soprattutto per via della poca lucidità data dall’alcol, ma sia benedetta quella lentezza, perché mi ha costretto a mettere da parte la mia solita fretta, a tirare fuori la pazienza, la capacità di ascolto e a restare lì per non ferirlo vedendomi correre via appresso ai miei pensieri e impegni. Quanto sarei voluto scappare via, tante volte: maledetta fretta. Piano piano, però, iniziammo a dialogare. Scoprii che dormiva all’ospedale San Filippo Neri, non troppo distante, via autobus, dalla Pineta Sacchetti. Ma in quelle condizioni, come riusciva a raggiungerlo? Vederlo deambulare non era molto diverso dall’assistere a un miracolo. E come riusciva a mangiare? Mi raccontava che rimediava qualcosa in una pizzeria di Largo Boccea, al momento della chiusura. Gli iniziai a parlare della Comunità di Sant’Egidio e del servizio che la comunità rende ai poveri. Se non ricordo male, mi disse che la conosceva. Già da qualche tempo avevo iniziato a essere un po’ più latitante agli incontri della Comunità, soprattutto al giro di distribuzione del cibo, non sapevo quindi neanche che i miei compagni erano giunti anche al San Filippo Neri e che avevano stretto legame con i senza fissa dimora del posto. Col tempo iniziai a essere più attento alla presenza di Valentin e mi intrattenevo con piacere a dialogare con lui, dopo la messa, mentre lui, con il suo berretto, si appostava fuori della chiesa a raccogliere qualche offerta. Iniziai anche ad accompagnarlo alla fermata del bus che lo avrebbe riportato al San Filippo Neri, ma vederlo percorrere quel tratto di Via Pineta Sacchetti, barcollante, alla sola, timida luce dei lampioni, con le macchine che sfrecciavano alle sue spalle e attraversare la stessa via una volta giunto all’altezza della fermata che si trova dall’altro lato della strada, era ogni volta una stretta enorme al cuore e alla gola. Eppure lui, caparbio, volenteroso e testardo, non si arrendeva. Spesso, preso dall’ansia, provavo a scortarlo e fare segno alle macchine di andare piano, ma lui mi diceva sempre di non preoccuparmi. Come potevo, dopo una messa, dopo aver ricevuto l’eucaristia, tirare dritto e lasciarlo al suo destino? Iniziavo a legarmi a lui e quindi sentivo nel cuore di doverlo fare, ma spesso era anche il dovere che mi diceva di stare lì e aiutarlo. Quante volte, durante la messa, vedendolo, vivevo la pesantezza di sapere che dopo la fine della celebrazione, per la mia ansia, non sarei stato in grado di correre a casa ma sarei rimasto per aiutarlo. Quelle volte (tante) in cui non mi andava proprio, ingegnavo addirittura di uscire dalla chiesa per una via secondaria per non farmi vedere, per non sentirmi costretto, ma lui mai chiedeva qualcosa, mai chiedeva aiuto. Quelle volte, però, qualcosa mi diceva sempre di no, di non scappare, e ogni volta che mi obbligavo a restare scoprivo che c’era un perché al fatto che avevo avvertito la necessità di fermarmi: era proprio in quei momenti che Valentin aveva bisogno oppure erano quelli i momenti in cui scoprivo qualcosa. Capitava che per giorni non lo si vedesse a messa, poi riappariva, con qualche ammaccatura in più sul viso, segno di tante cose. A volte le sue condizioni malandate lo portavano a cadere per via del terreno accidentato, a volte magari era a causa del vino, a volte, purtroppo, era vittima della legge della strada. Lui mi raccontava tutto ed io ascoltavo, poi lui barcollava verso la fermata, io correvo verso casa e tutto finiva lì: non era ancora questa l’amicizia. Fortunatamente durante l’estate del 2016 la Comunità di S. Egidio e la Fondazione Agostino Gemelli, insieme con altri partner, riuscirono ad accordarsi per aprire una struttura di accoglienza per i senza fissa dimora che dormivano alla stazione ferroviaria del Policlinico e al Pronto Soccorso dello stesso ospedale. Essendo l’anno che il papa aveva dedicato alla Divina Misericordia, la casa fu chiamata Villetta della Misericordia, con sede all’interno del perimetro esterno dell’ospedale. Valentin fu immediatamente ospitato, pur non facendo parte dei senza fissa dimora del Gemelli. Così col tempo, io che ero ancora latitante dagli impegni della Comunità, fui ancora una volta “costretto” da Valentin a superare i miei limiti e a entrare in relazione con questa nuova realtà della Villetta della Misericordia che, seppure bellissima, non era ancora entrata nella mia vita. Ora, infatti, lui aveva una casa in cui stare, un bagno per potersi lavare, un posto per mangiare e per me si poneva come motivo in più per iniziare a conoscere questa realtà. Ora, quando lo incontravo fuori la messa, sapevo dove andava a dormire e capitò, piano piano, che iniziai ad accompagnarlo con la macchina, per evitare che prendesse l’autobus e rischiasse la vita ogni volta che dovesse raggiungere la fermata. Il nostro rapporto iniziò, allora, man mano a cementarsi, io ripresi a essere maggiormente attivo nella Comunità, non più nella distribuzione del cibo per le strade, ma nel servizio alla Villetta della Misericordia, a Valentin ma anche agli altri 19 senza fissa dimora che hanno alloggio. Non fu più solo una questione di quattro chiacchiere fuori la chiesa, ma iniziai a “viverlo” in profondità: servirgli la cena, vederlo mangiare, assistere al suo racconto della giornata, vederlo ridere (o arrabbiarsi) con gli altri ospiti, distribuirgli le medicine di cui aveva bisogno, finanche a occuparmi della sua igiene; io, che sto studiando per diventare infermiere, non avevo mai lavato un uomo. Questo mi permise di osservare tutta la fragilità e umanità di una persona, mi permise di conoscere Valentin e di scoprire il suo senso di vergogna, il suo pudore, ma anche la sua umiltà nel comprendere le sue difficoltà e nel lasciarsi aiutare. Iniziava a costruirsi un’amicizia, fatta anche d’incontri al di fuori della parrocchia o della Villetta: iniziammo a trascorrere alcune ore insieme, a dialogare sempre di più. Mi raccontò pezzi della sua vita, mi parlò della famiglia, dei suoi genitori, della separazione con la moglie, della figlia, dei lavori che aveva svolto nel suo paese, la Romania, di quando era venuto in Italia, delle difficoltà, della povertà in cui era vissuto, dell’amore che nutriva per una ragazza più giovane conosciuta durante la vita in strada, e di mille altre cose. Spesso ci intrattenevamo a parlare dopo la messa della domenica mattina: io lo accompagnavo al S. Filippo Neri, dove trascorreva tutte le sue giornate in attesa di tornare alla parrocchia di San Lino per la messa della sera o andare direttamente alla Villetta per la cena, e gli portavo qualcosa per poter pranzare, dato che i negozi erano chiusi e non poteva comprarsi nulla; lui in cambio voleva a tutti i costi offrirmi e condividere con me un cappuccino, che riusciva a pagare con gli spicchi regalatigli dalle persone che incontrava. Ogni tanto capitava anche di doverlo accompagnare a qualche visita che la Comunità di S. Egidio era riuscita a fargli ottenere; anche quella era occasione per trascorrere lunghi momenti insieme. Non è tutto incanto e magia, però: la vita in strada è un inferno e ha dinamiche che sono difficili da cogliere per chi non le vive. La Villetta è un dormitorio e pertanto gli ospiti trascorrono tutta la giornata fuori e rientrano solo la sera per cenare e dormire. Valentin, spesso, cadeva vittima dell’alcol, un mostro che lo ha accompagnato per molti anni della sua vita: a volte era riuscito a vincerlo, altre volte perdeva. È stata per lui sempre una dura lotta. Questo, però, gli aveva procurato anche problemi di neuropatia ed è per questo che il suo passo ormai era incerto e barcollante, le gambe rigide e senza molta sensibilità. Spesso non ce la faceva neanche a rientrare al dormitorio. Proprio per questo decisi di comprargli una scheda per il cellulare: era il modo per avere contatti con lui, quando non ci vedevamo per giorni, ma anche un modo per “controllarlo” e per lui una possibilità di comunicare con noi della Comunità, fosse anche solo per avvisare che ritardava a un appuntamento. Tante volte mi ha squillato il telefono ed era lui: a volte soltanto per salutarmi, altre per chiedermi qualcosa, altre ancora per dirmi che aveva bevuto e non ce la faceva a rientrare a casa. Ogni tanto, invece, il telefono si scaricava, non riusciva ad avvisarci e quando non lo si vedeva rientrare la situazione era subito chiara e scattavano l’allarme e le ricerche: tante volte lo trovavamo, fermo, su una panchina, incapace di muoversi. La grazia ha voluto che si intrattenesse sempre negli stessi luoghi, pertanto era abbastanza semplice trovarlo. Tante volte, in piena serata, mi arrivava la telefonata, sua o di altri volontari, e subito andavo a ripescarlo, cercando di sostenerlo, di fargli raggiungere la mia macchina e di riportarlo a casa, un po’ compatendolo, un po’ arrabbiandomi (quasi sempre), ma quanto vorrei che il telefono squillasse ancora… Quel telefono era anche l’unico mezzo col quale, finalmente, riusciva, dopo molto tempo, anche a comunicare con i genitori, anziani e malati, che vivono in Romania. Quel telefono è stato anche il mezzo con il quale, martedì 26 settembre, ore 19,40, Valentin mi ha fatto l’ultima telefonata, dopo che ci eravamo sentiti alle 18. Valentin viene trovato senza vita, in circostanze al vaglio della polizia, la sera del giorno dopo: il 27 settembre 2017, che per me non sarà più solo il giorno del compleanno di Francesco Totti, ma da oggi, soprattutto, la perdita di un Amico. Molto altro ci sarebbe da scrivere e testimoniare, ma esigenze di spazio e tempo non lo consentono: conservo tutto nel cuore, mi auguro a più lungo possibile. Ciao Valentin. Riposa in pace. Grazie di tutto.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».
Alessandro Bianchi
Grazie Alessandro per aver condiviso con queste tue parole i sentimenti di amicizia che Valentin e riuscito a suscitare in ognuno di noi .