editoriali

La malattia, il dolore e la condivisione della stessa

Non mi ha colpito più di tanto il modo con cui la giornalista e scrittrice Michela Murgia sta affrontando un male incurabile, al punto da rivelare, in un’intervista, che le restano mesi di vita. Non mi ha colpito perché spesso chi si ammala di cancro ha bisogno di condividere la sua malattia. Non per essere compatito, ma perché così ci si illude di essere meno soli a combattere una battaglia che a volte si vince, a volte si perde. E coinvolgere gli altri nel proprio percorso di cure, di miglioramenti e ricadute, di paure e coraggio, al punto da pubblicare foto di cicatrici e teste rasate, esorcizza la paura.

Anche io l’ho fatto. Anche io, lo faccio. Per sensibilizzare, in realtà, sull’importanza della prevenzione. Perché quando mi hanno diagnosticato un melanoma e quando sono stata operata non ho detto nulla. Solo i miei familiari lo sapevano. Mi vergognavo quasi, della malattia. Mi sentivo “difettosa” rispetto alla perfezione altrui che mi circondava, fatta di persone sane e “migliori” di me. Perché il cancro isola. Fa sentire “diversi”, e si passano ore, giorni, mesi a chiedersi come mai il proprio corpo, un giorno, ha deciso di fare qualcosa contro se stesso, per distruggersi, annientarsi. E ancora adesso, la risposta non ce l’ho.

Ma ho un consiglio: non giudicare mai il modo in cui una persona affronta il proprio tumore. Piangendo, ridendo, facendo, amplificando il dolore o sminuendo la voragine della paura, che risucchia e fa toccare, più o meno da vicino, la morte. Perché il primo timore di tutti, nessuno escluso, quando si sentono dire “hai il cancro”, è quello. Di morire. Che poi, a pensarci bene, è la cosa più naturale. Assieme alla vita.

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