cultura

Lui il primo, io il secondo – un racconto di Benedetta Bindi

“Certo, il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a quell’uomo per cui il Figlio dell’uomo è tradito! Meglio sarebbe per cotest’uomo, se non fosse mai nato” – Matteo 26,23-25 

Oggi ho un nodo alla gola che non si scioglie, rimango a guardare il mare. Io secondo, lui primo, ancora adesso che potrei rubargli il posto, preferisco rimanere dietro.
“Sei un bastardo!”, gli urlo, anche se non può sentirmi, mentre un pesce guizza fuori dall’acqua e si reimmerge. Mi asciugo una lacrima: “Bravo – gli dico – rimani nel mare, si sta meglio, qui regna solo il caos”. Mentre il sole si riflette sull’acqua e fa brillare ogni onda in modo differente, avrei voglia di trasformarmi in un’alga. Essere un pesce è più faticoso, le alghe invece sono in grado di produrre il nutrimento grazie alla fotosintesi, e poi sono speciali, hanno il primato di essere i primissimi colonizzatori della terra.

“Matteo!” urlo nel vuoto. Mi manca, mi fregava a ogni partita, io troppo piccolo in quella porta enorme, lui troppo preciso , con quel piede destro che sapeva mirare come un cecchino. Lui che arrivava primo in tutto: a laurearsi, a sposarsi, ad aver figli. Il primo anche ad andarsene…Io, lui . Inseparabili dai tempi del liceo. Lui con le riposte sempre pronte su tutto, come se non tollerasse di cadere nel mondo circostante, senza comprenderlo. Mi stupiva, per quanto cose sapeva. Ha voluto sorprendermi anche una mattina, quattro mesi fa. Mi ha chiamato Giulia, sua moglie. Aveva un tono serio, mi ha quasi sussurrato: “Matteo se n’è andato”. In un primo momento ho creduto a una lite, come capita in tutti i matrimoni, anche se loro erano l’esempio della coppia perfetta. Tranquilli, affiatati, belli come i loro due figli: Cristina di nove anni e Alessandro di dodici. La famiglia da inserire in uno spot pubblicitario. Percepivi tanto di quell’amore entrando nella loro casa, era un piacere passarci del tempo. Una confusione in ogni dove, gli scarpini nel bagno, la cesta della biancheria in un angolo vicino alla doccia. Sempre mezza aperta, con i vestiti che facevano capolino come se giocassero a nascondino. Tanti cuscini sul divano, e oggetti colorati appesi anche alle pareti, sulle mensole, nelle camere, presi in giro per il mondo. Il mio amico non si stancava mai di viaggiare, appena aveva due soldi e giorni di ferie, partiva. Era il primo anche in questo, tutte le località dove sono stato, lui le aveva visitate prima di me. Un giorno mi ha chiamato dicendomi: “Claudio, Buona Pasqua! Siamo a Laccadive”. Io che m’immaginavo un paesino della Basilicata, invece è un isolotto nell’Oceano Indiano. Non mi diceva mai dove andava, gli piaceva farmi una sorpresa. Partiva solo o con Giulia, con i figli quando erano piccoli no, diceva che con loro non era vacanza. Infatti, fino a quando non hanno compiuto entrambi sei anni, li lasciavano dai nonni. Una scelta opinabile, ma era fatto così, con lui non si discuteva.

Io non sono riuscito ad avere dei bambini, ci abbiamo provato con Paola, ma dopo dieci anni abbiamo desistito. Ne avrei adottati anche due, lei non ha voluto. E mi rattristo ogni giorno per questa scelta, alcune volte ho pensato anche di separarmi, ma non ne ho mai avuto il coraggio, quello mi è sempre mancato per molte cose. Eppure di notte ho un pensiero ricorrente: “Come si può sopravvivere a tutto ciò che vediamo, che ci accade, se non confidando nei figli?”.

Se fossi stato Matteo, avrei felicemente rinunciato alle mete estreme che si prefiggeva sempre, e avrei portato i miei bimbi con me. Per lui viaggiare doveva comportare un senso d’avventura, dei rischi, odiava tutto ciò che era troppo organizzato. Allora safari estremi, arrampicate nei posti più improponibili del mondo,
o l’aurora boreale nella laguna glaciale di Jokulsarlon, in Islanda. Mi raccontava che alcune civiltà avevano fabbricato cose che le hanno portate alla propria fine. Forse è quello che accadrà anche a noi. Ad esempio quando era andato nell’isola di Pasqua, una guida sosteneva che per trasportare i monoliti, i nativi dovevano
farli scorrere su dei tronchi, e che per averli avevano disboscato l’isola. L’ecosistema era impazzito producendo frane, guerre civili. E per un periodo gli abitanti dell’isola erano diventati cannibali. Mentre io avevo letto che la loro scomparsa era stata determinata dall’arrivo di malattie come il vaiolo, e la sifilide, portate dagli esploratori occidentali.

Tornava dai suoi viaggi con un bagaglio di conoscenze incredibili che trasferiva a noi, insieme alle sue bellissime fotografie, un’altra delle sue passioni nelle quali eccelleva. Io gli perdonavo il suo essere un accentratore, c’erano serate nelle quali noi amici si diceva due tre parole, perché lui monopolizzava la tavola con i suoi racconti. Mi è sempre piaciuto molto come affrontava la vita, ne ero ammirato, ci planava sopra, senza farsi scalfire da tutte quelle rotture di scatole, nelle quali io rimango spesso arenato. Trovavo a volte detestabile il suo modo di pensare, le sue idee voleva fossero verità assolute. Se contraddetto si arrabbiava, quando succedeva passavo ad un altro argomento, per non rovinare la serata e calmare le acque.

Giulia faceva come me, mentre in aula, quando deve difendere un cliente rimane ferma sulle sue opinioni, su questo siamo uguali. Con Matteo invece eravamo entrambi mansueti. A noi, lui non perdonava mai i nostri difetti, ma se io o Giacomo o sua moglie, eravamo malati o sofferenti per qualcosa, era apprensivo e materno. Prima di Giulia aveva avuto parecchie donne, dopo di lei non lo so. Era reticente a parlare con me, perché io e Giulia siamo nello stesso studio legale. Sapeva che tenevo molto a lei, che l’avevo aiutata moltissimo a crescere e farsi una posizione. Oppure mi sono detto che semplicemente gli è sempre rimasto fedele. Matteo era leale, pronto a dare la vita per aiutare un amico. Abbiamo fatto pochi viaggi insieme, gli piaceva andare da solo. Diceva che era l’unico modo, per conoscere veramente un luogo. Per fortuna ha goduto ogni momento della sua esistenza, lasciava alla tristezza solo le briciole. Ha sempre avuto un’energia travolgente sin da ragazzo, da spostare i banchi, da far vibrare le finestre e diventar matte le professoresse. Alcune erano conquistate dai suoi occhi neri, con un’ espressione pronta alla sfida. Non aveva paura di nulla, scacciava anche la mia ad averlo vicino. Io schivavo la vita, lui che ci saliva in sella, e teneva ben
salde le redini. Fino a quando gli è scappata di mano. Quattro mesi fa…

Sono corso a casa sua, dopo la telefonata di Giulia, sono uscito com’ero vestito, pantaloni e maglione, non avevo indossato nemmeno il cappotto. Le mie gambe si muovevano veloci sull’asfalto, era freddissimo, gennaio inoltrato ma non sentivo nulla, nemmeno i rumori della strada. Brancolavo assorbito dalla frase: ”Se n’è andato”. Sono entrato nella sua stanza, Giulia mi ha lasciato solo, sotto le sue palpebre chiuse, sentivo ancora la sua voglia di vita. L’ho guardo bene disteso sul suo letto, virile come se stessi vivendo un sogno e non mi fossi ancora alzato dal letto, sentivo sua moglie Giulia armeggiare in cucina, i figli erano stati portati dai nonni. Stavo per perdere i sensi e ho aperto la finestra. Ho aperto le imposte, il sole è entrato dritto a baciare il suo corpo disteso. Io non ho fatto nessuna concessione alla morte, dritto in piedi non piangevo, nessuna lacrima. Non riuscivo a figurarmi quel momento nel quale lui ha capito che stava per morire. Ero sicuro che c’era stato. Mi domandavo: “Avrà sentito dolore? Avrà capito che stava finendo tutto? Ma con il suo solito dannato coraggio, avrà abbracciato sua moglie per l’ultima volta, ne avrà sentito il profumo? “

Quando Giulia è entrata nella stanza, mi ha raccontato che quando è arrivata l’ambulanza, lui era già morto. Un coronaropatia aterosclerotica, hanno detto. L’autopsia l’ha confermato. Per quattro, cinque, giorni sono stato totalmente sconnesso con la vita. Pensavo intensamente solo a lei: Giulia. In questo mondo troppo grande, con due figli da crescere. Mi sono ripetuto, quasi a volermene convincermene: “ Lei sarà molto più forte di me”. Sono stato io a presentarla a Matteo, non nego che mi ero innamorato perdutamente di lei vent’anni fa quando è arrivata nello studio. Ho sentito subito un misto di eccitazione, timore e desiderio. Lei per me non manifestava nulla, all’infuori di una grande ammirazione, per la mia esperienza per come proteggevo i miei clienti. Così alla festa dei miei trenta cinque anni, ho invitato entrambi: la mia collega e il mio migliore amico . Si sono conosciuti a giugno, a maggio dell’anno dopo si sono sposati, nemmeno un anno di fidanzamento. Com’ era prevedibile, lui non si lasciava mai sfuggire le buone occasioni, e lei lo era.

Giorni fa osservavo Giulia, i suoi capelli chiari legati in una piccola coda, le sue guance hanno ripreso colore, ma sono scavate, lo splendore del suo volto è perso per sempre. Dal suo sguardo è sparita quella patina di luce che la rendeva irresistibile. Siamo andati insieme a mangiare, rigirava la forchetta nel piatto attorcigliando bene gli spaghetti, li faceva scendere giù nello stomaco a forza. Avrà perso tre, quattro chili negli ultimi mesi. Su di lei si notano moltissimo, magra com’è sempre stata. Mi ha guardato dritto negli occhi e mi ha chiesto: “Tu a che cosa credi Emilio?”, così improvvisamente. Ho risposto: “Io credo in Dio”.

Lei ha aggrottato la fronte, ha bevuto tutto d’un fiato il bicchiere di vino, e si è alzata di colpo, camminando con il suo portamento deciso fino alla cassa. Ha pagato per entrambi, si è girata verso di me che ero rimasto inebetito, fermo immobile e mi ha detto: “Andiamo!” Io non avevo nemmeno finito di mangiare ma l’ho seguita. Ci siamo messi a camminare nel parco, vicino all’ufficio. Giulia con il suo spolverino di cammello stretto in vita, gli stivali con il tacco, mi pareva lunga e sottile, come fosse fatta di carta, la sua figura. Io che a ogni suo passo mi domandavo come mai avevo risposto così d’istinto:” Credo in Dio”. Visto che durante il
funerale di Matteo, mi sono reso conto che era tre, quattro anni che non mettevo piede in una Chiesa. Anche se mi proponevo sempre di farlo. A un certo punto lei si è fermata davanti a una panchina, di fronte una fontana. Ci siamo seduti, si è voltata verso di me e guardandomi mi ha detto: “Matteo mi diceva spesso che siamo formati di miliardi e miliardi di atomi, per lo più d’idrogeno, carbonio e ossigeno, ma in concentrazioni minori si trova di tutto: perfino l’uranio. Una volta che i nostri corpi si polverizzano, gli atomi continuano a esistere…”, poi si è fermata come a voler prendere il respiro. Mi guardava con i suoi occhi grandi, celesti, incollati nei miei. Mentre intorno a noi tutto accadeva con un vertiginoso ritmo da cascata, dentro il suo sguardo c’era una malinconia lenta, che scendeva in me, goccia a goccia, invadendomi e facendomi accelerare il cuore. Ai lati della sua bella bocca, scendevano due rughe profonde, che non gli avevo mai notato, come se si fossero materializzate d’improvviso, provocate da tutto quel dolore che doveva sopportare. Poi mi ha preso il volto con le sue mani affusolate e mi ha baciato. Ho sentito le sue labbra carnose sulle mie, morbide e calde.

Non c’è niente di più strano dei rapporti umani, per via di come le cose cambiano. Sono irrazionali, Giulia si è staccata da me, avevo in bocca ancora della sua saliva e mi ha detto: “Ti amo”. Io ho respinto questa parola, troppo sorprendente in quel momento. L’avevo detta a lei nella mia mente, per ore, giorni, ogni volta che la guardavo. Sentirla pronunciare dalla sua bocca però, non mi ha dato gioia. Quel bacio è stato desolante, ha significato solo un respingere il dolore, quello che entrambi proviamo per l’assenza di Matteo. Ho abbassato il volto e mi sono guadato i piedi, come un bambino che prova vergogna, poi con un filo di
voce le ho detto: “In questo momento non posso nemmeno sopportare il mio cuore” .

Su di noi, seduti su quella panchina è calato un paralizzante vuoto emotivo, la mia mente non riusciva a pensare più a nulla e si era irrigidita, la stessa cosa ha fatto il mio corpo. Ero duro, come la fontana che avevo di fronte. Lei si è alzata di scatto e mi ha detto: “Capito. Ci vediamo dopo in ufficio”, con un tono di voce che mi è parso sottolineare la mia mancanza di coraggio. Ha stretto la cinta dello spolverino alla sua esile vita con troppa forza, come se si volesse punire per quel bacio dato alla persona sbagliata, ed è scappata via, lasciandomi solo con il ricordo di lui appiccicato nell’anima, e una maledetta voglia, forse immotivata, di non tradirlo mai. E anche oggi che sono qui e guardo il mare, sento atomi di lui, tutti in fila davanti a me: lui il primo sempre, e per sempre.

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