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Il pane duro, di Wilder Hernandez (psicologo)

A volte ci avanza un pezzo di pane, dopo aver fatto colazione ed il giorno dopo diciamo: “Questo pane è duro” e spesso è proprio così. Ma, pensandoci bene, e pensando ad una riflessione che ho letto di un grande psicologo, Wilder Hernadez, oggi vorrei condividere una riflessione con te: “Il pane non è duro: duro, è non avere pane”.

Sembra una cosa assurda, ma siamo specialisti nel lamentarci e la maggior parte delle volte senza ragione, senza pensarci, per superficialità, per egoismo…Il pane non è duro, duro è non avere pane.

Che significa questo? Che il lavoro che fai non è duro: duro è non avere un lavoro.Che avere la macchina rotta, non è duro. Duro, è non avere una macchina. Ed avere la macchina rotta e dover andare a prendere l’autobus a piedi, è duro?No: non è duro. Duro è non aver gambe: duro è non poter camminare. Mangiare riso e sardine non è duro. Duro è non aver nulla da mangiare. Perdere una discussione in famiglia non è duro. Duro (e credimi, questo sì che è duro!) è perdere una persona della tua famiglia.

Dire “Ti amo” guardando negli occhi un’altra persona, non è duro. Duro è doverlo dire davanti ad una lapide o una bara, quando ormai sono inutili le parole.

Lamentarsi non è duro: duro è non saper essere riconoscenti.

Oggi è un buon giorno per ringraziare Dio per la vita, per tutto ciò che abbiamo e per non lasciare che la nostra felicità dipenda da qualcosa o qualcuno. La nostra felicità dipende solo da noi e da quante volte alziamo gli occhi al cielo per ringraziare il Signore. La vita non è perfetta, però è meravigliosa, quando la viviamo in Cristo.

Caro Dio, non importa ciò che sto passando in questo momento della mia vita, ti ringrazio del privilegio di essere vivo oggi.

Duro non è condividere questa riflessione con un buon amico;duro è non aver un amico con cui condividerla

Un pensiero su “Il pane duro, di Wilder Hernandez (psicologo)

  • R. T. M.

    Passiamo la nostra vita a ragionare sul passato e a lagnarsi del presente…. Tremare per il futuro. É una questione di tempo. Lamentarsi é sfogo… e lo sfogo é una forma di sottile piacere. Permette di esprimere pubblicamente un fastidio privato. É vero, occorrerebbe resistervi… Non accrescerlo con la nostra suggestione. (in questo caso specifico sarebbe sufficiente guardare al nostro bidone dell’immondizia che probabilmente è nutrito meglio del 30% della popolazione mondiale) Finché c’è vita temo che vi sarà lagnanza e dolore che genera sconforto… Lamenti. Ma il dolore non è diverso da colui che soffre e la persona che soffre vuole scappare via, fuggire… Fare ogni sorta di cose tra cui lamentarsi. Penso che il punto centrale sia la questione del dolore. Valutarne un diverso orizzonte, per pesarne la consistenza e la possibile liberazione. Imparare ad osservarlo e lasciarlo andare. Qui sta la difficoltà e la reazione della nostra mente. Come se fosse impotente ed incapace di fargli fronte. E allora cerca un rifugio, un conforto. Ci si lamenta pensando che la nostra particolare sofferenza sia unica. Tutto questo ci costringe in un canale assai ristretto. Un canale molto ristretto che è l’ego….che significa infelicità sforzi e lamentele ininterrotte. E il dolore sta ad indicare, a mettere in evidenza, lo stato di “separazione” in cui accettiamo di vivere. Può darsi che il dolore stia proprio ad indicare lo stato di dipendenza, di attaccamento e corruzione nel quale viviamo.

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